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 2013  giugno 13 Giovedì calendario

LE SFIDE DELL’EUROPA ERDOGAN NON AIUTA L’ECONOMIA I TIMORI DI BERLINO

Dobbiamo ancora credere nella Turchia di Erdogan? Se lo chiedono gli alleati della Nato e gli Stati Uniti, presenti in Anatolia con i radar puntati su Russia e Iran e i Patriot sulla Siria, ma anche i mercati: la faccia del primo ministro e i suoi successi erano stati finora una sorta di carta di credito che gli eventi di piazza Taksim sembrano avere seriamente intaccato. Il volto di Erdogan, l’islamico moderato, non evoca più come prima la solida garanzia di una Turchia stabile e affluente.
Sui destini apparentemente brillanti del Bosforo fanno ammenda persino le onniscienti agenzie di rating come Moody’s, che soltanto poche settimane fa consigliava caldamente i titoli di stato di Ankara. L’idillio non è durato neppure un mese e dopo le perdite in Borsa e nelle quotazioni della lira l’agenzia ha lanciato un chiaro avvertimento: il protrarsi delle proteste potrebbe pesare sul giudizio di credito del Paese.
Le dichiarazioni del primo ministro non hanno aiutato a consolidare la fiducia dei mercati, anzi sono apparse sconcertanti per un leader che si propone come una guida in Medio Oriente e un modello di esportazione della democrazia islamica: non soltanto ha preso di mira, oltre ai manifestanti, i social network e qualunque contestatore e dissidente, ma si è scatenato affermando che «forze finanziarie oscure minacciano dall’esterno la Turchia». Teorie del complotto, riprese anche dalla stampa vicina al partito di governo Akp, che lasciano perplessi perché appartengono al catalogo dell’usurata retorica dei raìs mediorientali spazzati via dalla primavere arabe e a un passato, legato a concezioni ossessive del potere, che in questo Paese sembrava sepolto. «A voi che provate ad affondare la Borsa - ha dichiarato il premier - lancio un avvertimento: sarete voi a crollare». Non sono certo queste le frasi che convincono i trader e neppure gli amici della Turchia.
Se ne sono accorti anche alla Casa Bianca, che ha lanciato appelli accorati affinché le manifestazioni pacifiche possano svolgersi liberamente e il commissario europeo per l’allargamento Stefan Fule, in un discorso pubblico in un hotel di Istanbul a un passo dal teatro degli scontri, ha bacchettato Erdogan affermando che «la democrazia è una disciplina quotidiana che non si esaurisce nelle campagne elettorali e richiede dibattito, consultazioni, compromessi». Anche da Berlino il Governo di Angela Merkel dichiara di seguire «con grande preoccupazione» la situazione in Turchia, e ricorda - tramite il portavoce della Cancelleria Steffen Seibert, che «solo il dialogo può servire a calmare la situazione in modo duraturo».
Neppure la crisi del 2008 aveva scosso la Turchia come le manifestazioni di Gezi Park. Eppure fino a oggi questa è stata vista come una delle economie più dinamiche tra quelle emergenti: dopo il crollo del 2001 le banche si sono dimostrate sorprendentemente resistenti alla crisi di cinque anni fa, e nel decennio che va dal 2002 al 2012 la crescita economica media annuale è stata superiore al 5%, con punte quasi cinesi, proiettando il Paese al 16° posto mondiale e al sesto tra i 27 dell’area Ue nel 2012. Il ciclo di riforme dell’oggi contestatissimo primo ministro ha avuto il merito di trasformare il Paese: il Pil è passato da 232 miliardi di dollari nel 2002 a 786 nel 2012, il reddito pro-capite è più che triplicato in un decennio.
Ma la forte accelerazione della marcia turca ha portato anche a squilibri. Le esportazioni, traino della crescita, non sono progredite allo stesso ritmo dell’economia, principalmente per la crisi dei mercati industriali e avanzati, una situazione che ha condotto a un deterioramento della posizione esterna: il disavanzo delle partite correnti si è ampliato notevolmente a causa del deficit commerciale, nonostante la richiesta di merci turche in Medio Oriente. La bilancia ha chiuso il 2012 con un netto calo del deficit (da 77 miliardi di dollari nel 2011 a 49 miliardi) ma il risultato è stato dovuto all’impennata delle vendite di oro all’Iran in cambio di petrolio, transazioni finite nel mirino delle sanzioni Usa. Allo stesso tempo la Turchia ha visto un forte aumento degli afflussi di capitale attirati dalla "caccia al rendimento". In Turchia questi capitali sono stati per lo più di breve termine, e hanno contribuito a finanziare in larga misura proprio il disavanzo delle partite correnti. E una forte dipendenza dai capitali speculativi e volatili mette a nudo il rischio di improvvisa inversione dei flussi in caso di crisi economica o politica.
Ma c’è qualche cosa di più delle cifre nude e crude che proietta ombre sul modello di sviluppo turco, non troppo dissimile da altre incensate potenze in ascesa come l’India o il Brasile. La protesta contro la costruzione del centro commerciale e della moschea a Gezi Park è indicativa dei limiti di questo modello: tra cantieri e colate di cemento che si stagliano all’orizzonte del Bosforo, la società civile lamenta un forte restringimento degli spazi pubblici. Per molti turchi questo sfrenato sviluppo urbanistico non è un segno di progresso ma una prova delle mire autoritarie di Erdogan: a lamentarsi non sono soltanto le vecchie élite kemaliste insidiate dalle Tigri dell’Anatolia, la borghesia imprenditrice musulmana e tradizionalista, ma anche migliaia di cittadini costretti a lasciare le loro case e il posto a condomini lussuosi e centri commerciali. La grandeur all’ottomana di Erdogan può resistere, anche economicamente, se saprà ascoltare tutto il suo popolo e non solo chi lo ha votato finora. Il dubbio è che abbia voglia di farlo.