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 2013  giugno 13 Giovedì calendario

PENSIONI D’ORO. RISOLVERE LO STRANO CASO NON E’ DIFFICILE - C’è

chi lo pensa, c’è chi lo grida a perdifiato (Giorgia Meloni): la Consulta ci insulta, offende il nostro senso di giustizia. Capo d’imputazione: la sentenza sulle pensioni d’oro, pubblicata in questi giorni. Quella che boccia il prelievo introdotto dal governo Berlusconi (5% sopra i 90 mila euro, poi a crescere 10% e 15%).
E oltretutto l’imputato è recidivo, dato che l’anno scorso i giudici costituzionali avevano già fatto saltare il contributo di solidarietà — deciso anch’esso dal governo Berlusconi — sui megastipendi dei dipendenti pubblici.
Lì per lì, non fa una grinza. Ma come, mentre tutti gli italiani tirano la cinghia, la Consulta difende
la busta paga dei privilegiati?
Non è forse uno scandalo, non ce n’è abbastanza per esigere un intervento a muso duro del capo dello Stato, come a muso duro esige la Meloni? A leggere le carte, tuttavia, la faccenda è un po’ più complicata. Anzi: l’ingiustizia si trasforma in un appello alla giustizia. Dovremmo farlo sempre, dovremmo procurarci informazioni dettagliate prima di sputare sul mondo i nostri insindacabili verdetti. E magari dovremmo poi evitare di tirare Napolitano per la giacca, specie quando si tratta di mettere un garante della Costituzione contro l’altro.
Ma sullo sfondo c’è una questione formidabile, su cui l’umanità s’interroga da sempre: l’eguaglianza. È in nome del principio d’eguaglianza, infatti, che questi due balzelli sono stati annullati. La prima volta perché ne venivano colpiti i soli dipendenti pubblici, e non anche i lavoratori autonomi o privati. La seconda volta perché a soffrirne erano i pensionati pubblici, lasciando indenni le altre categorie previdenziali. Da qui la discriminazione: insomma, una sorta d’accanimento dello Stato contro gli uomini (e le donne) dello Stato. Per di più doloso, dato che in origine il prelievo colpiva tutti, ma il Parlamento poi lo circoscrisse ai burocrati con una penna d’oca in mano. Nel giudizio della Consulta risuona perciò una massima che i rivoluzionari francesi scolpirono nella Déclaration del 1789: l’universalità della tassazione. Significa che in uno Stato di diritto il fisco non può distinguere tra figli e figliastri. Ma non significa che i ricchi debbano pagare quanto i poveri: ne è prova il tributo del 3% su tutti i redditi superiori a 300 mila euro, su cui il tribunale costituzionale non ha avuto niente da ridire. In altre parole, il principio d’eguaglianza s’applica agli eguali, non ai diseguali. E se lo Stato italiano avesse praticato l’equità fiscale, ci avrebbe pure guadagnato. Da qui un passaggio che si ripete pari pari in ambedue le sentenze incriminate: «Il risultato di bilancio avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà economica».
Domanda: ma allora perché non ci ha messo una pezza la Consulta? Perché non ha esteso la tassazione, invece d’azzerarla? In astratto, avrebbe ben potuto: l’eguaglianza può ripristinarsi verso il basso, oppure verso l’alto. Se due lavoratori hanno retribuzioni eterogenee, pur svolgendo l’identica mansione, posso innalzare la peggiore o abbassare la migliore. C’è però una differenza tra il Parlamento e la Consulta: l’uno aggiunge, l’altra toglie. Perché ogni tribunale costituzionale è una sorta di «legislatore negativo», come diceva Kelsen. E perché oltretutto la nostra Carta detta una riserva di legge in materia fiscale (articolo 23), sia pure di controversa applicazione. Insomma la Consulta non è il fisco, semmai è la nostra sentinella contro gli abusi del fisco.
Morale della favola: se il Parlamento vuole, se il governo lo decide, la tassa sulle pensioni (e sugli stipendi) d’oro si può ripristinare da domani. Però per tutti, senza distinguere tra lavoratori pubblici e privati. E magari, questa volta, con un po’ di raziocinio, dal momento che la discriminazione era figlia d’una normativa caotica e convulsa, con leggi abrogate ancor prima d’entrare in vigore, con una raffica di decreti non convertiti oppure emendati in corso d’opera. Calma e gesso, per favore.
Michele Ainis