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 2013  giugno 13 Giovedì calendario

QUEI BUROCRATI TUTTI D’ORO

COSÌ, IN APPARENZA, l’Iri ha confessato. Il direttore generale Leopoldo Medugno rastrella poco meno di 50 milioni di lire all’anno, 49 e mezzo, per l’esattezza. Giuseppe Petrilli, il presidente, l’hanno trattato un tantino peggio: 48 milioni. I direttori centrali hanno una busta paga che pesa dai 27 ai 41,3 milioni di lire. I condirettori da 20,2 a 27,8 milioni. I vicedirettori sono ancora più bassini: da 13,8 a 25,7 milioni. I procuratori ne racimolano solo da 12,1 a 14,5.1 funzionari da 8 a 12,3 milioni. Gli impiegati arrivano a un massimo di 8,9 milioni all’anno. I commessi, al massimo dell’anzianità, toccano il tetto dei 6,7 milioni di lire. C’è stata battaglia per rendere note queste cifre. Una battaglia che ha impegnato il comitato di presidenza dell’istituto. «Che faremo?», s’erano chiesti Pietro Armani (membro del cda dal 1973 al 1995 e vicepresidente dell’Iri per 11 anni, sotto Pietro Sette e Romano Prodi, ndr) e i suoi collaboratori, «che diremo alla stampa?». «E se Petrilli confessa gli stipendi alla commissione parlamentare», incalzava Enzo Storoni, il liberale (vicepresidente dell’Iri dal 1972 al 1977: si dimise per contrasti con Petrilli, ndr), «e la commissione mette il top secret? Che figura facciamo?». Così, in perfetta buona fede, il comitato aveva deciso di dare l’elenco delle “spettanze” in un comunicato. Naturalmente si tratta di buste paga nette, pulite, scremate fino allesso, senza indennità, senza missioni, buste paga limate. Gli stipendi lordi si calcolano con sufficiente approssimazione raddoppiando le cifre conosciute e buttando sul piatto un altro 10%. Medugno, quindi, arriva a 108,9 milioni. Petrilli a 105,6. I direttori centrali da un minimo di 59,4 a un massimo di 90,86 milioni all’anno. I vicedirettori da 30,3 a 56,5 milioni di lire.
Tralasciamo gli altri: procuratori, funzionari, impiegati e commessi. Sono queste le cifre che, milione più milione meno, risultano anche ai sindacati e sono deducibili dalle tabelle dell’istituto di previdenza dei dirigenti Inpdai. Ma sono veri questi stipendi? Corrispondono a verità le cifre fomite dal comitato di presidenza e che Petrilli ha reso ufficiali con il suo hearing alla commissione parlamentare che indaga sulla giungla retributiva? Dietro questa improvvisa “pubblicità” su buste paga fino a ieri custodite gelosamente come uno dei più sconvolgenti segreti di Stato c’è un giallo. Parallelamente alle confessioni di Petrilli è in corso un’inchiesta dell’ispettorato del lavoro. L’ispettore capo di Roma, dottor Bartoli, è molto riservato, ma abbiamo raccolto alcune indiscrezioni sulle indagini sollecitate dai sindacati della Fib-Cisl.
Prima di tutto, che i due ispettori inviati nel palazzo dell’Iri nella sede distaccata della Prope (la società dell’Iri che, gestita direttamente dal servizio relazioni pubbliche e sottoposta al controllo diretto di Franco Schepis, è stata indicata più volte come il veicolo promozionale dell’immagine pubblica dell’Iri, cioè una dispensatrice di fondi neri) sono “i migliori”. Secondo, che hanno raccolto «molto materiale interessante». Terzo, che l’esame di queste carte «è cominciato immediatamente». Quarto, che «l’ispettorato riferirà direttamente al ministro del Lavoro». Abbiamo chiesto se gli ispettori si sono trovati di fronte a “sorprese”. Ci hanno risposto con un lungo silenzio imbarazzato, dopo di che hanno aggiunto: «Noi rimetteremo tutto nelle mani del ministro. Sarà lui a decidere se diffondere queste notizie alla stampa oppure direttamente alla commissione parlamentare». In sostanza mentre Petrilli rende pubblici certi stipendi, in maniera molto più riservata corre quest’indagine parallela, certamente assai più appetibile del confiteor del presidente.
C’È CHI HA OSSERVATO che, in fondo, il fatto che Medugno sia un uomo da 110 milioni all’anno lordi non sia poi un grande scandalo. Si tratta sempre, in fondo, del direttore generale della più grande holding industriale e finanziaria del Paese. Ma questi uomini valgono le loro buste paga, nette o lorde che siano? Il giorno che Giorgio Tupini si dimettesse dalla presidenza dell’Alitalia, vedremo la Twa, la Lutthansa, la Sabena, dargli la caccia facendogli ponti d’oro? Mai più. Se per caso Luciano Paolicchi abbandonasse insoddisfatto la Finmare, pensiamo seriamente che gli Onassis superstiti lo assumerebbero per dare slancio alla flotta mercantile greca? Quando Umberto Delle Fave ha dovuto lasciare la poltrona della presidenza Rai, è stato forse conteso a suon di milioni dall’Ortf (Office de Radiodiffùsion-Télévision Francaise) o dalla Bbc? Magari.
Invece queste buste paga (a parte alcune eccezioni) sono comunque mal spese. Prendiamo due casi emblematici. Umberto Nordio ha lasciato dissestata la società di navigazione Italia per passare dove? Ma alla Finmare, che diamine. Dopo averla (con la collaborazione di Camillo Crociani) lasciata a galla in un mare di debiti, è stato forse messo a riposo? No, ha avuto in premio l’Alitalia che, mentre le altre compagnie di navigazione aerea si stanno riprendendo dalle crisi passate, va sempre peggio. Giorgio Tupini: da piccolo s’era buttato con slancio nella stampa e propaganda democristiana. Fece un macello. Alcide De Gasperi, nonostante l’amicizia con il papa del giovane attivista, lo mandò a spasso. Ebbene, quest’uomo in pochi anni ce lo siamo ritrovato a capo della Finmeccanica e, successivamente, alla presidenza dell’Alitalia.
Queste sono un po’ le trottole del sottopotere. Altrimenti ci sono i «sederi di pietra», quelli che non si muovono mai, primi fra tutti Petrilli, Medugno, Franco Viezzoli (è stato presidente di Enel e Finmeccanica, ndr). Fausto Calabria (nel 1977 coordinava tutte le partecipazioni bancarie dell’Iri; fu coinvolto nello scandalo dei fondi neri, ndr). E gli altri? Alberto Capanna al vertice della Finsider (la finanziaria che controlla l’Italsider e altre 22 società siderurgiche) da tempi immemorabili, tanto che ha avuto la possibilità di piazzare nugoli di congiunti nell’apparato. Vittorio Veronese, presidente a vita del Banco di Roma, Fausto Bima, ex deputato de, ha trovato la sua sinecura alla società dei Wagon Lits e alla Salvo. Leo Solari, socialista, vicepresidente (non operativo, e qualcuno aggiunge: «per fortuna») del Credito italiano, che ha pure conservato la poltrona in una società di pubblicità della Rai e si diletta di essere il presidente dell’Udda, l’Unione democratica dei dirigenti d’azienda.
A PROPOSITO di dirigenti d’azienda, c’è un grosso mistero, irrisolto, che avvolge la collocazione professionale dei boiardi dell’Iri. Quando, nell’immediato dopoguerra, si dovette decidere a che categoria sarebbero stati assimilati i dipendenti e i dirigenti dell’Iri, sorsero problemi. Troppe e troppo differenziate erano le caratteristiche delle varie attività dell’istituto. Si decise di assimilarli ai dipendenti delle aziende di credito. Così la delibera presidenziale del 20 febbraio del 1947 rimise in vita una scelta del fascismo. Come tutti i dipendenti delle aziende di credito, anche i dirigenti dell’Iri dovrebbero versare i contributi previdenziali dell’Inps. Invece versano i contributi all’Inpdai, l’istituto di previdenza dei dirigenti d’azienda. Pare che ci siano delibere ministeriali che risalgono agli anni Cinquanta, ma non è sicuro.
Questa è un’altra isola di privilegio dove i boiardi soggiornano indisturbati. I vantaggi di tale anomalia non sono pochi. Primo: pagano solo il 3% di contributi, invece del 6%. Secondo: per legge l’Inps non paga pensioni superiori alle 600mila al mese; l’Inpdai, invece, non ha di questi tetti. Terzo: se questo trattamento è illegittimo, allora l’Inps viene ogni anno defraudato di una considerevole massa di contributi. In sostanza, è una frode a danno della collettività dei lavoratori dipendenti pensionati. Ma, nella giungla dei superstipendi, esistono altri baobab. Sono i funzionar! generali della Banca d’Italia. Tralasciamo Rinaldo Ossola (direttore generale), Antonino Occhiuto e Mario Ercolani, vicedirettori generali, i cui stipendi sfuggono alle indagini. Ci sono altri uomini d’oro che, dalla data del settembre del 1975, avi uno stipendio di 54 milioni di lire ali’anno. Sono il consi economico Francesco Masera; i direttori centrali Giuliano Monterastelli, Ugo Bruno, Lamberto Cantuti Castelvetri, Domenico Perla, Mario Di Lorenzo; l’ispettore generale Giancarlo Ulivieri; il ragioniere generale Tinuccio Rovida e il segretario generale Carlo Azeglio Ciampi.
Ecco le voci dei compensi: stipendio 24.518.000 lire; assegno di residenza 559.500; 120 per cento 2.173.000; grado 4.606.000; alloggio 1.353.000; premio di incentivazione 835.900; indennità di rappresentanza 5 milioni di lire, gratifica di giugno 15 milioni. Totale: 54.045.000. A trattamenti simili sono abituati i direttori generali degli istituti di e italiani. Sono, in tutto, 2.503, così divisi: banche ordinarie 1.756; istituti di credito speciale 461; casse di risparmio 461. Secondo i sindacati dei bancari, questi direttori generali hanno stipendi che sfiorano i 50 milioni di lire all’anno. Moltiplicando, sappiamo che nelle loro buste paga entrano ogni anno 125 miliardi e 150 milioni.
I sindacati suggeriscono di aggiungere altri 625 milioni in contributi e oneri sociali. E di fare una distinzione: i dirigenti delle casse di risparmio (enti pubblici) prendono qualche cosa in più. Esistono in queste istituzioni voci di questo tipo: premio speciale per laurea del figlio e indennità di matrimonio. Non a caso alcuni dirigenti di banche ordinarie hanno lamentato passaggi massicci di dirigenti verso le casse di risparmio dove i tassi d’interesse sono bassissimi, dove non c’è consiglio d’amministrazione, dove non si producono utili e dove, sopratutto, aiutando gli enti locali in dissesto, si intrecciano le più salde e durature coperture politiche.