Aldo Santini, L’Europeo 5/2013, 13 giugno 2013
IL PETROL-BURATTINAIO
LE DIMISSIONI di Eugenio Cefis dalla Montedison segnano il culmine di una crisi in primo luogo politica e illuminano le colpe di un regime che ha tratto profitto dalla calcolata irresolutezza nell’affrontare decisioni di fondo. Per valutarne il significato bisogna riepilogare la storia di Cefis alla Montedison, e quindi degli errori e delle contraddizioni dello Stato, dell’incapacità dei governi di esprimere un piano industriale per coordinare lo sviluppo del Paese: la storia, cioè, degli interessi (e degli intrighi) dei partiti di potere che hanno pesato sulla maggiore azienda italiana. (Le dimissioni di Cefis vennero respinte; rimase alla guida della Montedison fino al 1977, quando lasciò improvvisamente la scena pubblica per ritirarsi a Lugano; morì nel 2004, ndr).
Cominciamo dal fatto che ha provocato l’arrivo di Cefis alla Montedison: la nazionalizzazione elettrica. Viene attuata dal centrosinistra nel 1962 e pone un problema di scelta: sacrifichiamo il diritto di proprietà o quello di iniziativa privata? La formula adottata sacrifica il piccolo azionista e avvantaggia i titolari delle società elettriche che si vedono ricoprire di denaro, mentre il largo pubblico degli azionisti può solo criticare il governo in nome dei risparmiatori delusi. Sull’industria privata italiana piove un’eccezionale quantità di denaro, si parla di 2.200 miliardi di lire. Questi indennizzi, che in mano averi imprenditori avrebbero costituito una piattaforma di lancio, sono la causa iniziale delle disavventure di molte industrie italiane.
La più clamorosa è lo sposalizio Montecatini-Edison. E lo stesso Cefis a puntualizzare: «L’aspetto destinato negli anni successivi a caratterizzare la crisi Montedison, valido non solo per la Edison ma per tutte le società che si trovarono a disporre di cospicui rimborsi in seguito alla nazionalizzazione, fu la difficoltà, per un management abituato a un settore relativamente tranquillo e privo di concorrenti come quello elettrico, di scoprirsi nuove vocazioni in settori industriali a esso sconosciuti».
Gli studiosi si domandano ancora perché Carlo Faina (1894-1980: ultimo amministratore delegato della Montecatini, ndr) subì l’incorporazione della Montecatini nella Edison di Giorgio Valerio quando la società guidata da Guido Donegani non era compromessa come si disse, e avrebbe potuto risolvere le sue difficoltà con migliori combinazioni. La Montedison si è rivelata presto un fallimento. Valerio, il suo presidente, ha dimostrato di essere un discreto finanziere ma un industriale privo di talento. I collaboratori che ha scelto sono della sua levatura. Il gigante non è divenuto la grande industria di livello europeo su cui l’Italia contava. Le sue iniziative più costose sono naufragate. E oltretutto, con i fondi neri che sono stati poi scoperti da Cesare Merzagora, ha aperto quella corsa alla corruzione più indiscriminata che, nel 1973, è degenerata nello scandalo nazionale del petrolio (1966-1973: i petrolieri, in cambio di provvedimenti legislativi a loro favore, sovvenzionavano attraverso l’Enel il governo formato da De, Psi, Psdi, Pri. Il settore petrolifero anticipava il denaro all’Enel che lo girava ai partiti; l’Enel rimborsava le anticipazioni aumentando il prezzo di acquisto dell’olio combustibile, ndr).
Non basta. La Montedison di Valerio, nella sua disordinata attività, ha ostacolato grossolanamente l’Eni. Siamo davanti alla prima conseguenza abnorme della nazionalizzazione elettrica. Lo Stato ha dato strumenti e denaro agli imprenditori privati per danneggiare o comunque per fare concorrenza sleale (si pensi ai finanziamenti dei partiti) alle industrie di Stato. Fu così decisa un’operazione che ci da un ritratto spietato dell’Italia democratica: ottenere con il denaro pubblico il controllo di un gigante privato nato in seguito alla nazionalizzazione elettrica, costata 2.200 miliardi di lire, sempre di pubblico denaro.
L’OPERAZIONE MONTEDISON è stata decisa nel 1968. L’ha guidata Eugenio Cefis, presidente dell’Eni. Il ministro del Tesoro Emilio Colombo, quell’anno, affermò: «La scalata ha avuto inizio per difendere le quotazioni del titolo Montedison che stava crollando in seguito alla crisi del gruppo». È solo una parte della verità. Cefis lo ha chiarito con la sua abituale crudezza nel settembre 1972, deponendo davanti alla commissione Bilancio della Camera per l’indagine sull’industria chimica: «L’operazione fu concepita alla luce di due considerazioni molto semplici, ma anche molto gravi. La prima era di ordine politico. La Montedison era il gruppo di punta dell’industria privata e conduceva una lotta spietata nei confronti delle Partecipazioni statali in genere e dell’Eni in particolare. Ritengo sia inutile scendere in particolari in merito alla situazione che si era creata: chi di loro ha fatto parte delle passate legislature può averne una certa conoscenza». Era un’accusa aperta alla classe politica. Gli chiesero di spiegarsi meglio. E Cefis spiegò: «Non è necessario dire tante cose. Quando vi era un disegno di legge che interessava l’Eni, le pressioni intervenivano a livello di segreterie provinciali, di partiti, di altri consessi, eccetera. In mille modi avevamo cercato di trovare una linea d’accordo con la Montedison su cose pratiche e di principio. Ciò non fu possibile e allora chiedemmo di toglierci questa spina dal fianco. Ci guidarono su questa strada anche considerazioni di ordine industriale e commerciale. I due gruppi operavano in settori identici, petrolifero e chimico, entrambi caratterizzati da enormi impianti e da investimenti a lentissimo rientro. Allo scopo di eliminare questi investimenti morti è sembrato logico addivenire a una suddivisione e alla concentrazione dello sforzo nel settore petrolifero per l’uno e in quello chimico per l’altro. Questa è la ragione per la quale è stata autorizzata l’operazione Montedison». Abbiamo riportato il brano più polemico della relazione Cefis per dare la misura del personaggio.
Non si parla così se non si hanno prove determinanti, ma anche forti alleanze politiche. La politica ha sempre condizionato l’industria chimica e petrolifera italiana. Dalla Montecatini di Donegani traeva potere il fascismo, dall’Eni di Enrico Mattei lo traevano le minoranze democristiane di sinistra e i socialisti: sulla Montedison di Cefis ha fatto molto assegnamento la segreteria de. L’intreccio fra politica e industria è una costante dell’Italia. Cefis è diventato presidente della Montedison nel 1971, dopo gli interregni di Cesare Merzagora (de, è stato presidente del Senato dal 1953 al 1967, ndr) e di Pietro Campilli (tra i fondatori della Dc, più volte ministro, ndr), e dopo l’assalto condotto da Raffaele Girotti, il suo braccio destro. Il governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, ammette che, fin dal 1968, aveva pensato a Cefis come presidente della Montedison perché per risanarla e rilanciarla ci voleva un uomo forte e con grossi appoggi politici: Cefis era Punico adatto. Ma dal 1968 al 1971 c’è stato anche il saccheggio del denaro pubblico da parte di tutti 1 grandi gruppi chimici di Stato e privati, l’Eni, la Sir, la Liquichimica (ennesima storia di fallimento dell’intervento pubblico nel Sud: i dipendenti assunti per lo stabilimento di Saline Joniche, per esempio, sono stati per 23 anni in cassa integrazione, la più lunga della storia della Calabria; allo Stato è costato circa 2 miliardi di lire, ndr) e non ultima la Montedison. L’Italia si è avviata verso il capitalismo di Stato. O meglio: verso il capitalismo dei partiti politici, se non delle correnti e dei leader dei partiti. La situazione della chimica italiana ha subito un profondo mutamento negli anni della scalata pubblica alla Montedison. Una dichiarazione del 1972 di Luigi Silvestre Anderlini (19212001: indipendente di sinistra, intellettuale e insegnante, ndr) espone bene i termini del saccheggio: «Contrariamente a quanto è lecito supporre, i pareri di conformità del Cipe che aprono la strada agli incentivi e al credito non sono andati a favore delle aziende a partecipazione statale o della Montedison. La più grossa fetta degli incentivi (pari a 1.800 miliardi di lire) l’ha avuta la Sir. L’Eni è a un livello quasi dimezzato rispetto alla Sir e la Montedison tocca un po’ più della metà del livello Eni».
Cefis, dunque, si trova alla testa della Montedison con l’acqua alla gola e quando la battaglia intorno ai miliardi della torta petrolchimica è pressoché conclusa. Si scontra subito con Nino Rovelli (nel 1948 acquistò la Sir; fu protagonista della “guerra chimica” contro Eni e Montedison, ndr), il quale dice di sé «sono il campione dell’industria privata», ma del quale gli altri dicono che «è il figlio adottivo del denaro pubblico», «è un imprenditore a capitale pubblico e profitto privato». La letteratura su Cefis e Rovelli abbonda. Cefis nell’orbita di Amintore Fanfani. Rovelli nell’orbita di Giulio Andreotti e di Colombo. Cefis che cura anche i rapporti con la sinistra (Francesco De Martino, Psi) e con la destra (Gastone Nencioni, tra i fondatori del Msi). Rovelli, amico di Giovanni Leone e con il genio delle assunzioni: un nipote del direttore generale delle Finanze, il cognato di Carli, il genero di Carli, il figlio di Carli. Cefis che dopo aver dato la scalata alla Montedison per conto dello Stato (120 miliardi di lire) annuncia il dissesto totale del gruppo, chiede l’intervento completo dello Stato, si allea con Carlo Pesenti, grosso azionista della società, nemico dichiarato dell’intervento pubblico nell’economia, e con il petroliere Attilio Monti, anch’egli azionista e suo amico personale. Rovelli che con i soldi dello Stato fa la guerra alla Montedison salvata e finanziata dallo Stato. Cefis che rimane a cavallo tra impresa pubblica e privata e che i comunisti accusano di fare acrobazie di alta finanza, di fare politica attraverso l’economia e di adoperare lo Stato per liberarsi dal suo condizionamento. La lotta Cefis-Rovelli è solo un capitolo della burrascosa storia politica dell’industria chimica. C’è quello più vistoso della lotta CefisGirotti, cioè Montedison-Eni. Ed essendo lotte che vanno ben oltre la chimica e i suoi dirigenti, ma coinvolgono la politica e l’economia italiane, essendo cioè lotte di potere, troviamo fra i suoi protagonisti effettivi Gianni Agnelli, Amintore Fanfani, Guido Carli, Leopoldo Pirelli, Michele Sindona, il Vaticano. Sono cronache fresche. Nel 1972, quando al governo sale Giulio Andreotti e la guerra a Pantani, dentro la De, assume toni aspri, si pensa che Andreotti, al quale si appoggiano sia Girotti sia Agnelli e Rovelli, finisca per frenare l’ascesa di Cefis.
DIFATTI CON ANDREOTTI nasce un progetto per equilibrare gli interessi privati e quelli pubblici dentro la Montedison. Il progetto sfocia in un sindacato di controllo nel quale gli azionisti privati e quelli dipendenti dalle Partecipazioni statali si equivalgono e dove agisce da arbitro un istituto di diritto pubblico portatore a sua volta di un pacchetto azionario. Siamo alle origini delle dimissioni di Cefis. Nel sindacato di controllo ci sono l’Eni e l’Iri per la parte pubblica, la Bastogi, Pesenti, Monti, Agnelli, Pirelli, la Fondiaria, più due fiduciarie per la parte privata. Lo presiede Giorgio Cappon, allora direttore generale dell’Imi, che funge da arbitro. La gestazione del sindacato è lunga. E Cappon si oppone con decisione all’ingresso delle due fiduciarie, Euroamerica e Nicofico, due etichette di comodo per nascondere azionisti misteriosi. È il presidente della Bastogi, Tullio Torchiani, a imperlo. Si tratta solo di un errore? Gli azionisti di un sindacato di voto devono conoscersi molto bene. Così alla Montedison salta fuori il giallo. Gli avversari di Cefis, fin dal 1973, scrivono che, dietro alle due fiduciarie, c’è Cefis, impegnato a scalare di nuovo la Montedison, questa volta da privato, con i profitti occulti della sua attività sovvenzionata dal denaro pubblico, allo scopo di salvaguardare il proprio dominio anche dopo la costituzione del patto sindacale. Cefis replica che dietro le due fiduciarie c’è Rovelli. L’accusa mette in imbarazzo Cappon che attraverso l’Imi sostiene l’industria di Rovelli. Ma è stato Cappon ad alzare il disco rosso per l’Euroamerica e la Nicofico: Andreotti lo conferma. Altri scrivono che le due fiduciarie hanno agito per conto di Rovelli e di Giretti insieme. Prende la parola il democristiano Carlo Donat-Cattin: «Giretti ha un tale grado di iniziativa imprenditoriale che trattiene il fiato per paura di sbagliare respirando. Figuriamoci se con l’intimazione del potere politico a non acquistare azioni Montedison si muoveva!». E aggiunge: «A rigore di logica quest’operazione può convenire solo a Cefis che così è in grado di ricattare il potere pubblico». Ormai l’impero di Cefis fa gola a molti: 180 stabilimenti, 4 mila miliardi di lire di fatturato, interessi in campo giornalistico, la petrolchimica che con l’inflazione e la ripresa degli affari tira bene, la situazione del gruppo che, con il taglio dei rami secchi, volge all’attivo. Inoltre il piedistallo di Cefis, dopo la sconfitta democristiana nel referendum sul divorzio, sembra meno solido. Tutto fa credere che, per i suoi avversari, sia giunta l’ora di attaccarlo frontalmente. E invece è Cefis che parte all’offensiva.
NEL SETTEMBRE 1974 Il Fiorino pubblica il rapporto quadrimestrale della Montedison, non ancora distribuito, dove si denuncia che un pacchetto di maggioranza relativa (il 20 per cento) è stato acquistato da un gruppo italiano. Il nome di Rovelli viene fatto a lettere di scatola. Lo stesso presidente del sindacato di controllo ammette più tardi che lo “scalatore misterioso”, che è riuscito a rastrellare 120 milioni di azioni Montedison, è Rovelli. Le carte sono scoperte. Cefis avverte che si dimetterà. I suoi critici commentano che la decisione era prevedibile, soprattutto da parte di un capitano d’industria che non nasconde di essere uno studioso di strategia militare. Ma se le dimissioni di Cefis, puntualmente date la scorsa settimana, rispondono a un’esigenza di chiarezza, la situazione politica e industriale intorno alla calamità di interessi che è da sempre la Montedison è diventata più complessa. Si pensava che Agnelli, notoriamente vicino a Rovelli, ad Andreotti e a Colombo, e a Carli, cioè alla lobby di potere contraria a Cefis, si schierasse contro Cefis. Invece Agnelli avrebbe respinto l’offerta di Rovelli di vendergli il pacchetto di maggioranza relativa. Agnelli e Cefis, dunque, avrebbero firmato un patto di alleanza, o comunque di non belligeranza. Il 14 gennaio La Stampa commentava la florida situazione della Montedison e la «profonda insoddisfazione di Cefis di non poter operare liberamente», con parole che Cefis avrebbe sottoscritto.
Le voci, subito riprese da molti giornali, di una frattura tra Pantani e Cefis, e di un accostamento tra Andreotti e Cefis, sottolineano l’importanza che la chimica assume alla vigilia delle elezioni amministrative. Andreotti è un professore di terapie politiche e non è un mistero che il suo obiettivo è soppiantare Fanfani. Come ministro del Bilancio ha ancora in mano l’affare Montedison. Ha già detto che ha posto l’Imi a capo del sindacato per arbitrare il conflitto Eni-Montedison, ma, non esistendo più motivi di conflitto, la presenza di un arbitro è inutile, e così ha reso disponibile la presidenza del sindacato per Cefis in persona e ha rivelato che tra Giretti e Cefis sarebbe scomparso ogni motivo di contrasto.
Da parte sua, Cefis osserva che ha ricevuto la presidenza Montedison su indicazione del governatore Carli con tre incarichi precisi: mettere a posto la società, portare in attivo il suo bilancio, renderla autonoma. I primi due li ha assolti. Il terzo no, perché nel sindacato di controllo a cui deve rendere conto del proprio operato e delle proprie iniziative è entrato il concorrente più pericoloso. Per questo non aveva più la certezza di essere il vero presidente. Cefis dice anche dell’altro: è vero, il 1975 sarà un anno difficile, ma anche di scelte urgenti. La petrolchimica ha un’evoluzione profonda, bisogna studiare un programma di sviluppo su cui fondare l’attività dei prossimi anni. L’autonomia del gruppo è indispensabile proprio adesso. Senza autonomia non si possono prendere decisioni di fondo. E, se le decisioni non si prendono adesso, la Montedison perde il treno: quando il mercato tornerà a tirare la Montedison scoprirà di essere rimasta al palo.
Il discorso di Cefis è tecnico e peserà sulle decisioni del governo chiamato a ristrutturare la politica delle partecipazioni di Stato. Noi facciamo un discorso più globale: la chimica è un’industria che in altri Paesi è da tempo trainante, in Italia, invece, è in crisi permanente. Nei Paesi dove l’industria chimica è trainante, le grandi società si fanno una concorrenza di mercato. In Italia, invece, la concorrenza avviene per accaparrarsi i capitali, le sovvenzioni e i ruoli.
Lo Stato ha speso migliaia di miliardi di lire in tutte le aziende chimiche, pubbliche e private, senza riuscire a controllare e a dirigere niente. Quello che è accaduto nella Montedison, dove un imprenditore privato ha impiegato i miliardi ricevuti dallo Stato per dare la scalata a una società salvata dallo Stato e finanziata dallo Stato, spiega, con allucinante evidenza, come vengono impiegati i nostri soldi e dimostra che il problema da risolvere non è solo industriale ma in primo luogo politico. I politici, in altre parole, devono prendere le decisioni pensando all’interesse del Paese, che alla lunga coincide con il loro, e non a quello esclusivo del loro potere personale e di corrente, che non coincide mai con quello del Paese.