Daniele Protti, L’Europeo 5/2013, 13 giugno 2013
CI È MANCATO IL FUTURO
[Intervista a Raffaele Morese] –
Che la grande impresa si riprenda mi sembra difficile. Poiché quella piccola non può fare tutto da sola, soprattutto in un contesto internazionale, l’unica possibilità risiede, in parte, nella crescita della media» : Giuseppe De Rita, 71 anni a luglio, cofondatore e presidente del Censis, sociologo e teorico della piccola impresa, stavolta è pessimista. Anche perché le medie imprese, a cui affiderebbe il rilancio, «sono poche e non fanno volumi d’occupazione, come avevano fatto le grandi, per esempio la Fiat, tra gli anni Cinquanta e i Settanta. O le piccole imprese negli anni Ottanta».
Partiamo dalla crisi economica e del lavoro. In teoria potrebbe esserci piena occupazione e povertà o viceversa...
Be’, in questo caso direi che sono legate. Però facciamo un passo indietro. L’Italia entra in crisi negli anni Settanta. C’è stato il miracolo economico nel 1958, gli anni Sessanta sono stati prima di programmazione e poi di contestazione. Ma gli anni Settanta cambiano tutto. Nella struttura. Perché la “sovrastruttura” è fatta di giornali che raccontavano di nuovi modi di costruire le automobili, di salario-variabile indipendente, di fine dell’industrialismo, di scioperi generali. E poi di terrorismo...
E invece?
Invece l’Italia cambiava con l’esplosione del ceto medio e della piccola impresa. Ritrova tutto nel Saggio sulle classi sociali di Paolo Sylos-Labini (Laterza, 1988). Come noi, Sylos-Labini sosteneva che non ci fossero più le classi. Si era formato, invece, un grande ceto medio. E questo faceva saltare il paradigma classista, la lettura di una società divisa per classi. Per intenderci: negli anni Cinquanta il ceto medio costituiva meno del 25% della popolazione; negli anni Settanta, quasi il 70%.
Che carattere aveva questa mutazione?
Noi pensavamo che fosse il prodromo per la nascita di una classe borghese. Meglio: di borghesia illuminata, trainante dello sviluppo, com’è stata quella imprenditoriale dell’Inghilterra, o quella amministrativa in Francia. Invece...
Mi scusi ma questi aggettivi, “illuminata”, “trainante” se li tira dietro il nome borghesia o era una vostra speranza?
Per noi se li tirava dietro. Per Sylos Labini era più una questione di statistica economica. In ogni caso Pier Paolo Pasolini disse che ci sbagliavamo: disse che non era borghesia nascente. Per lui era piccolo-imborghesimento.
Piccolo-borghesi e poi borghesi: dunque non sono due fasi dello stesso sviluppo...
No, sono cose diverse. Certo, sono persone che hanno lauto come una volta il borghese, la sua stessa casa... ma non costituiscono una classe. Insomma aveva ragione Pasolini: stavamo andando verso un imborghesimento di basso livello.
E poi?
Ha presente quella che al Censis chiamammo l’Italia-poltiglia, l’Italia a mucillagine, l’Italia a marmellata?
Ma perché alla fin fine non c’era stata un’evoluzione nel senso che dicevate voi. Perché invece aveva ragione Pasolini?
A livello di struttura c’era stata appunto questa esplosione del ceto medio impiegatizio, in particolare statale. Bidelli, forestali, posti bassi, insomma. In più anche chi veniva da una cultura legata alla borghesia imprenditoriale ha fatto l’errore di puntare su investimenti strani. Per esempio: l’operaio Fiat, che aveva fatto il doppio e triplo lavoro di sabato e domenica e si era aperto la sua aziendina e quindi era diventato piccolo imprenditore... poi ha scelto di aprire un negozio di parrucchiere alla moglie e dare la laurea al figlio.
Ed è un errore?
Per carità. Un abbraccio all’ex operaio che ha fatto tanto. Ma ha scelto strade di imborghesimento per la famiglia.
Non capisco...
Era evidente che tutti gli ex operai volevano la laurea per i figli.
In realtà, la percentuale di laureati, in Italia, è bassa: era al 15% nel 2012, ovvero, nella zona Ocse siamo davanti soltanto alla Turchia (13%). La media Ocse è del 31% e quella europea del 28%...
Vero. In più ci si laurea ancora in lettere. Gran parte degli studenti ha tentato la laurea facile. Comunque, quelli che ancora oggi fanno la piccola impresa sono usciti dalla scuola a 18 anni. Hanno fatto l’istituto tecnico-professionale, non il liceo.
Non ho ancora capito il nesso con il mancato passaggio alla borghesia.
Le ho fatto esempi per spiegarle come la crescita del ceto impiegatizio, un elemento strutturale, e le decisioni di status, l’attrazione per certi simboli, dall’auto alla laurea, ossia un elemento culturale, hanno generato una massa di piccoli borghesi.
Un fenomeno solo italiano?
In una forma così massiccia, in soli dieci anni, con un cambiamento così radicale, sì... a metà degli anni Cinquanta l’Italia era costituita per metà da agricoltori. In nessun altro Paese il cambiamento è stato così rapido. Ed è stato così rapido che le singole persone non hanno avuto il tempo di ruminare il successo: l’hanno gestito.
E il nesso con l’attuale crisi dell’occupazione, dalla quale eravamo partiti?
Ossia da dove vengono i 3 milioni, o più, di precari? Vengono da lì. Sono ragazzi della piccola borghesia, diplomati, qualche volta laureati, che hanno fatto un percorso di formazione non professionalizzante e che alla fine si ritrovano a spasso. Su di loro è molto difficile intervenire. Ha presente quanta gente, soprattutto ragazze, frequenta Comunicazioni di massa? Tutti candidati alla disoccupazione.
Mi permetta di notare però che ci sono tanti ingegneri che migrano all’estero...
Parliamo di un segmento piccolo. Mi lasci dire: dunque, negli anni Settanta è esplosa la piccola impresa italiana. Nessuno se n’era accorto. Nel censimento del 1971 gli impianti industriali, gli stabilimenti, erano ancora 500mila. Creati in cento anni circa: dal 1870 al 1970. Al 1981, con gli stessi metodi di rilevazione, risultavano raddoppiati: quasi un milione. Uno choc, anche in termini di organizzazione della vita...
E di sfruttamento del territorio...
E di motivazione personale: si erano messi tutti a fare i piccoli imprenditori, anche gli operai. A quel punto cominciò la crisi della grande impresa.
Per colpa della piccola?
Anche.
E quindi la grande fino ad allora aveva goduto di buona salute e, tolta la Grande depressione degli anni Trenta, era cresciuta in maniera sana?
È rimasta sana fino a metà anni Sessanta, perché aveva mercato. La Montecatini aveva mercato, la Pirelli altrettanto. L’errore di quell’epoca è stata la fusione Montecatini-Edison, ovvero la convinzione che per fare grande impresa bisognasse accumulare acquisizioni, -fusioni, diventare sempre più grandi. Il fallimento della Montedison è il segno di un Paese che premiava i piccoli e non sosteneva i grandi.
Che quindi si sono trasformati?
Sì, hanno fatto altro: finanza, innovazione eccetera, pure quando non cera più la scusa dei piccoli. C’è stata una modifica strutturale dell’impresa italiana. Tenga conto che nel 1993 saltò l’Iri e quindi tutto il sistema delle Partecipazioni statali che avevano avuto un loro senso soprattutto negli anni Quaranta e Cinquanta (dal 1992 l’Iri cominciò le dismissioni; scomparve definitivamente nel 2002, ndr). Così siamo rimasti con le piccole imprese... la loro esplosione coincide con il declino inarrestabile della grande impresa, Ultima la Fiat oggi, almeno in Italia.
La crisi della grande impresa non è legata ai rapporti insani con la politica? Al passaggio, nelle Partecipazioni statali, dai tecnici-amministratori delegati agli uomini di partito-manager?
Abbiamo avuto industrie a partecipazione pubblica eccellenti e all’avanguardia, nelle quali tutti, dagli operai ai dirigenti, erano fieri della produzione. E poi un degrado, anche nei rapporti di lavoro... Sono arrivate le iscrizioni alla P2 per ottenere commissioni importanti... Vede, non voglio difendere nessuno. Ma il mercato è cambiato. Quando ero giovane esisteva un mercato che non aveva bisogno di appartenenze. Il mercato delle armi, ma non solo, oggi richiede appartenenze: politiche, imperiali, di loggia, di Opus Dei...
Quindi un fenomeno internazionale?
Naturalmente, in Italia pesa molto l’appartenenza politica. Ma quella serve poco per le commesse internazionali.
Quindi lei non accusa certi governi, a cominciare da quelli di centro-sinistra degli anni Sessanta, di aver introdotto logiche devianti nei piani industriali?
Per carità, che i capi delle aziende a partecipazione statale avessero la tessera di un partito in tasca è quasi sicuro. Ma non è questo che ha ridotto il peso degli ingegneri e dei tecnici rispetto ai politici ai vertici industriali.
Invece?
I capi d’azienda hanno dovuto gestirsi un’appartenenza che non era ne ingegneristica ne politica: piuttosto era orizzontale, molto difficile da gestire.
Allora l’unico colpevole della fine della nostra grande impresa è il mercato?
La crisi della grande impresa è una crisi del suo mercato. Quella della Fiat oggi e, prima, quella della General Motors sono legate al mercato. Vede, si ragionava così: andava bene lauto? Tutti a produrre auto o pneumatici. Si vendevano tanti frigoriferi? Tutti a produrre frigoriferi. La nostra grande impresa è stata, scusi il bisticcio, un’impresa di grande serie sui prodotti di consumo di massa. E questo è finito: non si comprano più frigoriferi come vent’anni fa. E lo stesso vale per le auto.
Si poteva reagire...
Le imprese hanno cercato di colmare la contrazione del mercato con una grande capacità finanziaria. A volte in modo ridicolo, perché fino a quel momento avevano fatto altro. La prima che ci ha provato è stata appunto la Montedison, ed è andata male. L’ultima è la Fiat, che è passata dal fare economia reale a fare finanza... per ora va bene. Vedremo... In mezzo c’è la crisi dell’Olivetti, quella della Falck e di buona parte della grande impresa italiana...
E c’è la crisi dell’occupazione: chi fa finanza non produce lavoro. Ma, intanto, la piccola impresa?
Si è divisa: una parte si è internazionalizzata, produce all’estero e in Italia non porta un euro. Produce Pii esterno, per giocare con le parole. Però a farlo sono un terzo delle nostre imprese. Poi c’è una parte che rimane in Italia, quella commerciale e artigianale, che resta senza mercato.
Perché il mercato italiano non tira...
Appunto. E fa soffrire chi produce per l’interno. Anche qui: nei tanti anni in cui abbiamo predicato “mercato, mercato”, non ci siamo resi conto che nessuno sapeva fare davvero mercato.
Quanta distorsione portano le mafie?
Dal punto di vista dell’economia reale poca roba. Certo, c’è il pizzo, il ricatto sul territorio. Ma il problema vero è che le mafie fanno finanza e, attraverso la finanza, inquinano la società. Ma in fondo è quello che è successo alle grandi imprese. Per questo oggi le mafie rischiano di condizionare di più la società italiana.
Non le sembra che le compravendite immobiliari siano state il vizietto dei nostri imprenditori? Al di là dei casi più clamorosi, tipo “furbetti del quartierino” (espressione usata nel 2005 da Stefano Ricucci per indicare i protagonisti di illecite scalate bancarie, ndr), lo sport di vendersi e rivendersi immobili per tarli salire di valore era piuttosto diffuso...
Be’, però fino a un certo punto le costruzioni sono state un fatto reale: abbiamo messo su milioni e milioni di case. Negli anni Settanta, ma ancora di più negli anni Ottanta e Novanta. La gente aveva fame di case e, come le dicevo prima, se il pubblico chiede case, si fanno case...
Vuoi dire che fino a un certo punto è stato un business reale.
Sì, sono stati fatti tanti profitti e pure i furbetti piccoli hanno fatto soldi.
Quest’anno c’è stata una diminuzione delle iscrizioni all’università. Le famiglie hanno perso il mito della laurea. Che responsabilità ha il sistema scolastico?
Non è facile rispondere. Tenga conto che noi crediamo di avere avuto una politica scolastica e formativa: non è vero. Non l’abbiamo avuta. Le decisioni sono state delle famiglie. Per molti anni abbiamo avuto un boom del liceo classico: le famiglie pensavano che fosse di livello, che desse una formazione più completa, eccetera. Oggi le famiglie preferiscono l’istituto tecnico. Che vuoi dire? Che le scelte formative non sono guidate dalla politica, ma gestite in qualche modo dal “consumatore”. Insomma, una tragedia.
Perché? In fondo parrebbe che le famiglie abbiano più naso...
Ma questa non è politica formativa. È naso, appunto. Le faccio un altro esempio: il governo fa la riforma del tre più due all’università. E stabilisce che ciascun ateneo decida in autonomia quali corsi di laurea istituire. Arrivano così a Roma, al presidente della Commissione per la valutazione del sistema universitario, 3.600 corsi di laurea. Il presidente, allora, ero io, che mi ero laureato a Roma all’unico corso di laurea esistente in giurisprudenza: 18 esami obbligatori e tré facoltativi. Ritrovarmi in questo casino... alternavo rabbia e angoscia. Perché sospettavo la furbizia dei professori, ma anche il tentativo di captare l’interesse delle famiglie. Tornava quell’intreccio perverso tra una scuola povera d’idee e una famiglia che voleva solo uno status sociale e pretendeva un corso di laurea quale che fosse, purché facile.
Ma la riforma Gelmini ha ridotto i corsi.
Non li ha ridotti la riforma, ma la mancanza di allievi.
Le va di finire con una classifica delle responsabilità per l’attuale crisi?
Le classifiche non si fanno perché non corrispondono al vero: la crisi deriva da un intreccio di fattori. La mia valutazione, ossia la valutazione di uno che ha cominciato lavorando sul piano Vanoni del 1955 (aveva quattro obiettivi: creare 4 milioni di posti di lavoro tra 1955 e 1964; ridurre lo squilibrio tra Nord e Sud; raggiungere il pareggio della bilancia dei pagamenti incrementando le esportazioni; ridistribuire le forze lavoro, ndr), è che, in Italia, sono mancate l’idea del futuro, la previsione, la visione, la programmazione, se vogliamo. È mancata la tensione in avanti. Ci siamo goduti quel che avveniva, ma non abbiamo voluto esprimere un’idea di futuro. Vale per il ricercatore, come per il politico, l’imprenditore e il padre di famiglia. Certo oggi non è più possibile fare programmazione come ai tempi di Vanoni. Ma bisogna organizzarsi per ciò che verrà. Qualche azienda si è riposizionata. In maggioranza non ne siamo stati capaci.