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 2013  giugno 13 Giovedì calendario

I CATTIVI PADRI DI FAMIGLIA

DOMANDA spontanea per chi guardasse da fuori le faccende di questa nostra Italia: dove vanno a finire i soldi? La spesa pubblica ha superato di slancio il 50 per cento del Pii, varcando la soglia degli 800 miliardi, secondo i dati del 2012. Per far fronte a questo conto mostruoso che le amministrazioni centrali e locali ci presentano ogni anno, la pressione fiscale assorbe anch’essa metà dell’intera ricchezza prodotta nel Paese. Il debito pubblico, inoltre, aumenta senza sosta: segno che lo Stato continua a farsi prestare quattrini. Eppure i soldi mancano sempre. Mancano ai comuni, che lamentano tagli massacranti ai loro bilanci. Mancano alle regioni, che non riescono a far fronte alla spesa sanitaria. Mancano anche allo Stato, che dice di non avere risorse per la ricerca, l’istruzione, i beni culturali, la cassa integrazione, le infrastrutture.
Ma com’è possibile che, con un prelievo fiscale astronomico, la pubblica amministrazione non abbia mai i denari necessari per coprire le spese che pure mette in bilancio? E com’è possibile che, oltre a non averli, abbia pure accumulato enormi arretrati con i fornitori? Il calcolo è semplice: se, nel 2008, la Confindustria stimava in 60 miliardi i debiti della pubblica amministrazione verso le imprese e oggi quella cifra è salita a 91 miliardi, significa che 6 miliardi l’anno di spesa pubblica aggiuntiva non figurano nei bilanci. Da qui non si scappa. «Dove vanno a finire i soldi?», potrebbe dunque chiedersi qualcuno, a ragione, in Germania, Paese nel quale lo Stato onora i propri impegni mediamente in 36 giorni contro i 180 dell’Italia (che diventano 800 per la sanità calabrese...).
INGENUO, IL NOSTRO amico straniero. Non sa che noi spendiamo, per mantenere la burocrazia, il 18,4 per cento della spesa pubblica, contro il 12 per cento dei tedeschi: differenza che si traduce in un maggiore costo, per i contribuenti italiani, di 50 miliardi l’anno. Non conosce i mille rivoli delle uscite improduttive e clientelari, è all’oscuro del fatto che il bilancio dello Stato è un delirio di complicazioni fra “cassa” e “competenza”; ignora che abbiamo spezzettato un Paese in 20 regioni che assomigliano a tante repubbliche autonome (ma che dell’autonomia hanno soltanto i diritti e nessun dovere), ognuna con una contabilità diversa. Non ha idea dell’ottusità di un’amministrazione che negli anni si è trasformata da strumento erogatore di servizi, com’è in ogni Paese civile, a strumento erogatore di stipendi. Organismo parassitario vivente all’interno di un altro organismo al quale succhia risorse, del tutto (o quasi) disinteressato a che le cose funzionino al meglio, bensì preoccupato in maniera pressoché esclusiva di mantenere le proprie prerogative. La cavalcata gloriosa che ha portato l’Italia a conquistare il poco invidiabile record della spesa pubblica, in rapporto a una qualità fatiscente dei servizi, è cominciata negli anni Ottanta. C’erano le pensioni baby. Le banche erano quasi tutte pubbliche. Le aziende a partecipazione statale pagavano 700mila stipendi. Il 70 per cento della capitalizzazione della Borsa italiana era ascrivibile all’Iri.
All’inizio di quel decennio la spesa pubblica assorbiva un terzo del Pii: la stella di Bettino Craxi era già alta nel cielo e la Prima Repubblica cominciava a scricchiolare. Quando, nel 1981, a palazzo Chigi si affacciò il primo presidente del Consiglio laico del dopoguerra, Giovanni Spadolini, il debito pubblico era al 60 per cento. Dopo la cura decennale del famoso “pentapartito”, nel 1992 era arrivato al 105,2 per cento del Pii. Quarantacinque punti in 11 anni, a un ritmo superiore di quattro punti l’anno. Ed era un’Italia che cresceva, quella. Un’Italia che orgogliosamente rivendicava il sorpasso sulla Gran Bretagna, al quinto posto fra le potenze economiche mondiali. Un’Italia che sottoscriveva gli accordi di Maastricht, impegnandosi a rispettare i tetti del deficit e del debito pubblico rispettivamente al 3 e al 60 per cento del Pii, mentre disavanzo statale e indebitamento viaggiavano allegramente intorno all’11 per cento e al 100 per cento della ricchezza prodotta nel Paese. Finché, un bei giorno, non suonò la sveglia. Era il momento più buio, quello di Tangentopoli, dell’offensiva della mafia, della crisi finanziaria e del crollo del sistema dei partiti.
SI DECISE che nulla sarebbe stato più come prima, che la burocrazia doveva diventare efficiente e concreta. Che la politica sarebbe stata moralizzata e resa più sobria. Ma soprattutto, che lo Stato doveva mollare la presa sull’economia passando la mano ai privati. Era l’unica ricetta possibile, fra l’altro, per ridurre deficit e debito pubblico e agganciare l’Europa.
Il ministero delle Partecipazioni statali fu chiuso. Venne sciolto l’Efim. Eni e Iri si trasformarono in società per azioni e cominciò la più massiccia dismissione di asset pubblici mai vista in Italia. Prima, con il centrosinistra, le aziende di Stato. Poi, con il centrodestra, gli immobili di proprietà statale.
Il risultato? Se nel 1992 il debito pubblico era al 105,2 per cento, ora siamo arrivati al 130. Le sacrosante privatizzazioni delle aziende pubbliche hanno favorito i privati senza dare allo Stato i vantaggi previsti. Mentre le vendite degli immobili pubblici hanno talvolta fatto addirittura crescere le uscite correnti, a causa degli affitti che si sono dovuti pagare, non avendo al tempo stesso ottenuto l’abbattimento del debito. Una débàcle totale, conseguenza della progressione inarrestabile di una spesa pubblica che invece avrebbe dovuto rallentare.
In trent’anni la crescita è stata di circa 20 punti di Pil, con lo Stato che, avendo ceduto banche, aziende e un bei po’ di patrimonio immobiliare, si ritrova oggi con un debito pubblico ancor più stratosferico. Il buco nero della spesa impazzita ha inghiottito tutti i benefici che avremmo potuto ottenere dalle privatizzazioni: un debito pubblico ridotto significa meno interessi e più risorse per gli investimenti.
FA SORRIDERE che ci sia ancora chi da la colpa alla crisi e non al clamoroso fallimento di una classe politica di incapaci. Perché negli altri Paesi europei, nonostante la crisi, non è andata certamente così. Fra i 17 Stati dell’euro, la sola Italia, a partire dal 2001, ha accusato un calo del Pil pro capite a prezzi costanti, cioè della ricchezza reale prodotta da ciascuno di noi, pari al 6,5 per cento. C’è un solo altro Paese che presenti il segno meno davanti a questo indicatore: il Portogallo, con un -4,1 per cento. Gli altri? Germania più 13,3. Olanda più 8. Belgio più 7,9. Francia più 4,3. Spagna più 2,8. Perfino la Grecia, dove negli ultimi tre anni il Pil è precipitato, ha il più davanti a un sia pur modesto 1,6 per cento. Come Cipro: più 0,3.
Questi dati sono del Fondo monetario internazionale. E ci dicono impietosi che, mentre la spesa pubblica e le tasse hanno continuato a salire, ognuno di noi, caso unico in Europa, oggi si ritrova più povero di 1.586 euro rispetto all’inizio del millennio.