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 2013  giugno 13 Giovedì calendario

IL GRANDE TERRORE NEI VOLTI DELLE VITTIME

Fra gli orrori europei del secolo scor­so, è stato quello di portata più va­sta in tempo di pace. Eppure, il Grande Terrore staliniano perpetrato fra l’agosto 1937 e il novembre 1938 ha rive­lato al mondo i suoi veri tratti solo con l’avvento della Perestrojka. Grazie all’a­pertura degli archivi e a un mosaico di te­stimonianze, si è compreso quanto ma­cabramente eufemistica fosse la nozio­ne di “purghe”, ancor oggi ripresa nei ma­nuali. Le stime più attendibili sono rag­gelanti: in sedici mesi, l’Unione Sovieti­ca fu amputata dal regime dell’un per cento della propria popolazione dell’e­poca. Ovvero, 750mila individui arresta­ti con ogni pretesto, torturati, condannati a morte con sentenze mai rivelate ai fa­miliari, abbattuti con una pallottola alla nuca, o a colpi di martello o di grosse pie­tre, o per strangolamento. Poi inceneriti, oppure occultati in fosse comuni. Paral­lelamente, furono 800mila i condannati a lavori forzati che si prolungarono ben oltre il decennio annunciato inizialmen­te. Solo in circa 100mila sopravvissero fi­no alle liberazioni, cominciate nel 1954. Le “operazioni segrete di massa” furono lanciate esattamente il 30 luglio 1937 da un ordine di Stalin registrato con le cifre 00447. Secondo lo storico franco-russo Nicolas Werth i gerarchi informati del­l’intero processo di sterminio non supe­rarono mai i duecento. Sulla scena inter­na e internazionale, i “processi di Mosca” contro la “vecchia guardia leninista”, ac­curatamente teatralizzati dal regime fra il 1936 e il 1938, funsero da efficace co­pertura al massacro segreto. Fra le cam­pagne di sterminio, quelle “nazionali” presero localmente la fisionomia del ge­nocidio, come l’Operazione polacca, che annientò 150mila russo-polacchi, un quinto del totale. Fra gli altri gruppi na­zionali concentrati soprattutto nelle zo­ne di frontiera, finirono nel mirino ebrei, tedeschi, lettoni, estoni, finlandesi, ru­meni, greci. A livello civile, fra i “gruppi a rischio”, fu stritolato senza pietà il no­vanta per cento del clero, accanto ai sen­zatetto e ai nomadi. Numeri tanto roton­di non lasciano più dubbi. Fra le scoper­te agghiaccianti di storici come il britan­nico Robert Conquest figurano le quote di vittime prefissate in ogni zona ammi­nistrativa.
Negli ultimi anni, dalla fosca selva di car­te, mappe e cifre dell’orrore, ritrovata so­prattutto negli archivi dell’ex commissa­riato di Stato che includeva la polizia po­litica (Nkvd), sono riemersi pure tanti scatti in bianco e nero. Quelli con i volti delle vittime arrestate nel distretto mo­scovita, l’unico in cui le autorità dispo­nevano di apparecchi fotografici. I ritrat­ti servirono soprattutto al riconoscimen­to, al momento dell’esecuzione, dei pre­sunti “agenti controrivoluzionari” e “ne­mici del popolo”. Ma quegli occhi, con la loro eloquenza e forza di documento sto­rico, bruciano oggi lo sguardo. E adesso una selezione impressionante di quei vol­ti di uomini e donne in trappola è final­mente accessibile pure al grande pubbli­co dell’Europa occidentale, grazie alla pubblicazione in Francia del volume La Grande Terreur en Urss, 1937-1938 (edi­zioni Noir sur blanc), a cura del fotografo e giornalista polacco Tomasz Kizny, af­fiancato dalla giornalista francese Domi­nique Roynette. Fra gli altri autori dei te­sti esplicativi, figurano il russo Arsenij Ro­ginskij, presidente dell’associazione Me­morial fondata dal premio Nobel Andrej Sacharov, Nicolas Werth e il critico foto­grafico Christian Caujolle.
Presi appena dopo gli arresti, gli scatti precedettero spesso di poco le esecuzio­ni. E – come notano diversi autori – la di­namica fulminea dello sterminio sembra aver lasciato sui volti dei condannati, ol­tre al terrore e alla rassegnazione, pure u­na profonda incomprensione kafkiana. A sessant’anni dalla morte di Stalin, gli sguardi intensi sembrano ancora chie­dere: «Perché?». Lo stesso interrogativo, in fondo, al quale gli storici ammettono di aver risposto solo in parte. Se il movente immediato degli stermini ricorda le pa­ranoie collettive orchestrate pure da altri regimi totalitari, l’ampiezza presa dal Grande Terrore sfida ogni razionalità. Fu Conquest a sostenere per primo che «la caratteristica di Stalin era proprio di fare ciò che era stato giudicato moralmente e fisicamente inconcepibile».
Fra i sessantun ritratti in bianco e nero riprodotti in grande formato, c’è pure quello di Vladimir Nilovic Volkov, prete ortodosso a Islavskoje, villaggio della re­gione moscovita: nato nel 1878, arresta­to il 27 febbraio 1938, condannato a mor­te il 7 marzo, assassinato il 25 marzo. No­nostante il dramma, lo sguardo profon­do e la barba bianca, folta e perfettamente simmetrica, conservano una dignitosa e misteriosa ieraticità. Gli occhi più giova­ni sono invece quelli leggermente in dia­gonale, in una posa ancora infantile, del diciassettenne Ivan, “senzatetto”, assas­sinato il 14 marzo 1938, all’indomani del­lo scatto riprodotto. Le pagine dei diari di alcuni condannati, i freddi rapporti della polizia politica e molte testimonianze odierne di familia­ri delle vittime arricchiscono il volume. A­nalizzando il problema del rapporto e­stremamente ambiguo e parziale della Russia di oggi con questo passato, Ro­ginskij si chiede: «In assenza di una me­moria storica degna di questo nome, è forse possibile l’apparizione di un siste­ma normale di valori sociali, nel quale la vita, la libertà e la dignità umana siano assolutamente prioritarie rispetto agli in­teressi del potere di Stato?». Delle croci, spesso discrete, ricordano ormai la tragi­ca costellazione di luoghi, soprattutto nel­la Russia europea e in Ucraina, dove so­no state rinvenute le principali fosse co­muni. Di tante altre, ancora introvabili, resta solo qualche ricordo cupo e urti­cante.