Monica Ricci Sargentini, Corriere della Sera 12/6/2013, 12 giugno 2013
«A Istanbul potrebbe arrivare un terremoto e non c’è più uno spazio vuoto per mettere una tenda, al loro posto solo centri commerciali e grattacieli»
«A Istanbul potrebbe arrivare un terremoto e non c’è più uno spazio vuoto per mettere una tenda, al loro posto solo centri commerciali e grattacieli». Cemal Gokçe è presidente della Camera degli ingegneri edili locale, ci riceve nel suo ufficio e tira fuori una mappa della città: «Il premier dovrebbe consultare chi conosce il territorio, il piano regolatore prevede 16 milioni di abitanti ma con i suoi progetti saliremo a 25. Qui non c’è posto per tutta questa gente». Tayyip Recep Erdogan è abituato a pensare in grande. Per Istanbul ha messo in cantiere un terzo ponte sul Bosforo che dovrebbe drenare il traffico dei camion in arrivo da Europa e Medio Oriente, un tunnel sott’acqua per mettere in comunicazione la parte Europea con quella asiatica, una moschea enorme, la più grande del mondo, che sorgerà a Çamlica, un’area in cui la popolazione ama andare a fare i picnic. Per non parlare del progetto, definito «folle» dallo stesso Erdogan, di costruire entro il 2023, anno del centenario della Repubblica, un canale lungo 50 chilometri che collegherà il Mar Nero al mar di Marmara. L’intenzione di distruggere il piccolo parco Gezi è stata soltanto una goccia nel mare: «Tutte queste opere — dice Gokçe — rovinano il verde, le sorgenti idriche, i boschi, la fauna. E peggiorano la qualità della vita». La Turchia è diventata un immenso cantiere. Dovunque si vedono operai al lavoro. E gli appalti finiscono quasi sempre agli amici dell’Akp, il partito filoislamico al governo da più di un decennio. La ricostruzione del quartiere Tarlabasi, dietro piazza Taksim, per esempio, è stata affidata al gruppo Calik, il cui amministratore delegato è Berta Albayrak, il genero di Erdogan. Costeggiando il Bosforo dalla parte europea si arriva a Maslak, un quartiere di grattacieli dove la gente va solo a lavorare: «Prima questa era una zona fuori città — dice Arzu, una ragazza curda — e si veniva a passeggiare nel bosco, ora la città si è sta mangiando tutto». Ad Anadolu Kavagi, un villaggio di pescatori nella parte asiatica, i cittadini salgono sulla collina per ammirare il panorama e rilassarsi mangiando pesce nei ristorantini. Da lì si vedono le due sponde su cui sorgerà il terzo ponte: sono brulle e spoglie, l’area è già stata completamente disboscata. E molti altri alberi cadranno per costruire le strade e l’aeroporto. A piazza Taksim gli ambientali dell’Associazione Gezi Park hanno piantato una tenda e non intendono muoversi. Sono loro gli autori del ricorso in tribunale che ha fermato, per ora, le ruspe. «Da sette anni è in atto un attacco forsennato alla natura» dice Mustafa Nogay, 44 anni, uno dei leader dell’Associazione. Magro, capelli corti e neri, una barba appena accennata, Nogay ha girato tutta l’Anatolia per documentare gli scempi del governo e poi ha chiesto un’udienza al premier: «Ma non ci ha mai ricevuto». «Un leader che vede la sua stessa società come un nemico non può governare il Paese — aggiunge —. Io sono musulmano e nella nostra religione le maniere sono la cosa più importante». Cita un verso del poeta Yunus Emre: «Se hai rotto un cuore le tue preghiere non hanno alcun significato». Per Nogay «il primo ministro ha spezzato un milione di cuori. Ora se ne deve andare». Monica Ricci Sargentini