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 2013  maggio 29 Mercoledì calendario

TROPPA GENTE SULL’EVEREST

Incontriamo il primo cadavere a un’ora di scalata dal Campo 4 della Cresta Sud-Est dell’Everest. Io e Panuru Sherpa lo scorgiamo riverso su un fianco, come se dormisse sulla neve, con la testa coperta a metà dal cappuccio del piumino. Piccole piume fluttuano nell’aria dai buchi nei pantaloni imbottiti. Dieci minuti dopo passiamo accanto al corpo di una donna, il busto avvolto in una bandiera canadese tenuta ferma da una bombola. Io e Panuru ci arrampichiamo faticosamente sulle corde già fissate al ripido pendio; siamo incastonati in mezzo a una sfilza di alpinisti che non conosciamo. Ieri al Campo 3 ce n’era solo un gruppetto. Ma al nostro risveglio stamattina siamo rimasti a fissare a bocca aperta una fila interminabile di scalatori che passava accanto alle nostre tende.
Adesso siamo bloccati in coda a 8.230 metri di quota, costretti a procedere alla stessa velocità degli altri, a prescindere dalle abilità individuali. Nel buio vorticoso che precedeva la mezzanotte, ho alzato lo sguardo verso una scia di luce che si innalzava verso il cielo nero: le lampade frontali degli scalatori. Sopra di me c’erano più di 100 persone che si muovevano lentamente. In un tratto roccioso, ho visto almeno 20 alpinisti attaccati a un’unica corda logora, fissata a un solo chiodo piantato nel ghiaccio e già pericolosamente piegato. Se fosse saltato fuori, la corda o il moschettone avrebbero ceduto all’istante e gli alpinisti sarebbero piombati verso la morte.
Io e Panuru, il capo sherpa del nostro gruppo, ci stacchiamo dalla fila e deviarne verso il ghiaccio aperto, proseguendo per conto nostro: per gli alpinisti esperti è più sicuro così. Venti minuti dopo ci troviamo di fronte un altro cadavere. Ancora legato alle corde, l’uomo è seduto sulla neve, rigido come pietra, il volto nero e gli occhi spalancati. Trascorse alcune ore, prima di raggiungere l’Hillary Step, il muro di roccia di 12 metri che rappresenta l’ultimo ostacolo prima della vetta, ne vediamo un altro: il volto ispido e grigio, la bocca spalancata in un gemito di sofferenza.
In seguito sarei venuto a conoscenza dei nomi di quei quattro alpinisti: il cinese Ha Wenyi, 55 anni; la nepalo-canadese Shriya Shah-Klorfine, 33; il sudcoreano Song Won-bin, 44; il tedesco Eberhard Schaaf, 61 anni. Ripassando accanto ai cadaveri congelati mentre scendo dalla vetta, penso al dolore devastante che proveranno i loro familiari e amici. Anche se le dinamiche delle morti di quelle persone non sono ancora del tutto chiare, molte delle recenti tragedie sull’Everest sono state attribuite a una pericolosa mancanza di esperienza. Senza il necessario addestramento ad alta quota, alcuni alpinisti non sono in grado di valutare la propria capacità di resistenza e non sanno quando è il caso di abbandonare l’impresa e tornare indietro. «Solo la metà di tutta questa gente ha l’esperienza necessaria per scalare questa montagna», osserva Panuru. «L’altra metà è inesperta, e rischia la morte».
CINQUANT’ANNI FA ERA TUTTO DIVERSO. Il 1° maggio 1963 James Whittaker, accompagnato soltanto dallo sherpa Nawang Gombu, fu il primo americano a scalare la vetta più alta del mondo. Big Jim, così lo chiamavano, salì dalla Cresta Sud-Est, lungo la via aperta nel 1953 dall’ineguagliabile neozelandese Edmund Hillary e dallo sherpa Tenzing Norgay. Whittaker aveva scalato il monte McKinley alcuni anni prima, mentre Gombu era alla sua terza ascesa dell’Everest. Tre settimane dopo altri due uomini della spedizione americana, Tom Hornbein e Willi Unsoeld, raggiunsero la vetta da una via nuova, la Cresta Ovest. Nello stesso giorno Barry Bishop e Lute Jerstad completarono la seconda ascesa americana dalla Cresta Sud-Est. Le due squadre si incontrarono sotto la vetta, ma era già buio, e furono obbligate a bivaccare a 8.535 metri, una scelta pericolosa mai tentata prima di allora. Senza tende ne sacchi a pelo, senza stufe ne ossigeno, senza sherpa, acqua o cibo, rischiarono davvero molto.
«Dio, come sono stati fortunati», dice Whittaker. «Se si fosse alzato un po’ di vento sarebbero morti tutti. Sarebbe stato orribile».
I quattro sopravvissero, anche se Unsoeld e Bishop persero, tra tutti e due, 19 dita dei piedi. E malgrado due mesi prima l’alpinista del Wyoming John “Jake” Breitenbach fosse morto in un incidente sulla cascata Khumbu, la spedizione USA del 1963 fu considerata un’impresa eroica, l’equivalente alpinistico dello sbarco sulla Luna. La nostra squadra si trova sull’Everest per celebrare l’anniversario di quella spedizione. Ma, come abbiamo potuto constatare con i nostri occhi, la montagna è diventata il simbolo di tutto ciò che non va nell’alpinismo di oggi. A differenza del 1963, quando solo sei persone giunsero in vetta, nella primavera del 2012 ci sono arrivati in più di 500. Quando l’ho raggiunta anch’io il 25 maggio era così affollata che quasi non cerano posti in piedi. Nel frattempo, giù all’Hillary Step si era creata una fila lunghissima, tanto che qualcuno ha dovuto aspettare più di due ore, tremando e indebolendosi malgrado il tempo splendido. Se questa schiera di alpinisti fosse stata sorpresa da una tempesta, come è accaduto nel 1996, il bilancio delle vittime sarebbe stato sconcertante.
La conquista dell’Everest è sempre stata una grande impresa, ma oggi che la vetta è stata raggiunta da quasi 4.000 persone alcune delle quali lo hanno fatto più di una volta ha meno valore rispetto a 50 anni fa. Oggi circa il 90 per cento degli scalatori dell’Everest è gente che paga una guida per farsi portare su, e molti sono sprovvisti persino dell’addestramento basilare. Dopo aver pagato dai 30 mila ai 120 mila dollari, troppe persone inesperte pensano di poter raggiungere la vetta. Molte ci riescono, ma in condizioni spaventose. I due percorsi standard, la Cresta Nord Est e la Cresta Sud-Est, sono pericolosamente affollati e disgustosamente inquinati, pieni di rifiuti che emergono dal ghiaccio e piramidi di escrementi umani che imbrattano i campi ad alta quota. Per non parlare delle vittime. Oltre ai quattro alpinisti morti sulla Cresta Sud-Est, nel 2012 altre sei persone, tra cui tre sherpa, hanno perso la vita su questa montagna.
Sembra evidente: e’è qualcosa che non va sul tetto del mondo. Ma a detta di chi conosce bene questa montagna la situazione non è irreparabile.
RUSSEL BRICE, 60 ANNI, dirige Himalayan Experience, o Himex, il più grande operatore di spedizioni alpinistiche. La Himex ha guidato 17 spedizioni sull’Everest, sia dal versante nepalese, sia da quello cinese. Brice, australiano trapiantato a Chamonix, è famoso per il rigore con cui gestisce la sua attività. Tutti gli scalatori e gli sherpa che fanno parte delle squadre Himex sono forniti di radio e sono tenuti a contattare la base ogni giorno. Inoltre, devono indossare un apparecchio di ricerca in valanga, un elmetto, un’imbracatura e i ramponi e devono sempre stare agganciati alle corde di sicurezza (nella primavera del 2012 uno sherpa di un altro gruppo non è riuscito ad agganciarsi alle corde di sicurezza ed è precipitato in un crepaccio). I clienti devono stare al passo, oppure tornare indietro.
Malgrado siano piuttosto numerosi fino a 30 clienti con altrettanti sherpa i gruppi di Brice cercano di limitare i danni raccogliendo tutti i loro escrementi e rifiuti, pratica che gran parte delle squadre non segue. Grazie all’impegno per la pulizia del Sagarmatha Pollution Control Committee, una sorta di consiglio comunale dell’Everest, le condizioni del Campo Base sono migliorate (i rifiuti prodotti dagli uomini finiscono in barili che vengono poi rimossi), ma l’iniziativa non ha avuto risultati altrettanto buoni a quote più alte. «Potremmo gestire i grandi numeri se tutti gli operatori parlassero tra loro», dice Brice. «È una questione di comunicazione».
Magari fosse così semplice. Ci sono altri fattori in gioco. Uno, paradossalmente, è rappresentato dall’accuratezza delle previsioni meteorologiche. In passato la mancanza di informazioni spingeva le spedizioni a tentare la scalata quando i componenti della squadra si sentivano pronti. Oggi, grazie a previsioni satellitari iper-accurate, le spedizioni sanno esattamente quando ci sarà la prossima finestra di tempo buono e spesso partono tutte nello stesso periodo.
Un altro fattore è che non sempre gli operatori più economici hanno il personale sufficiente o le competenze e le attrezzature necessario per garantire la sicurezza dei clienti. Spesso le spedizioni a basso costo assumono pochi sherpa, talvolta anche con scarsa esperienza. «Tutti gli alpinisti morti sull’Everest l’anno scorso si erano affidati a operatori con minori risorse ed esperienza», afferma l’argentino-americano Willie Benegas, 44 anni, guida d’alta quota e comproprietario con il fratello Damian della Benegas Brothers Expeditions, che ha effetuato 11 spedizioni sull’Everest. Secondo i Benegas, il Ministero della Cultura, del Turismo e dell’Aviazione civile che in Nepal ha competenza sulle spedizioni sull’Everest dovrebbe obbligare gli operatori nepalesi a mantenersi allo stesso livello di quelli internazionali e puntare su una migliore formazione degli sherpa.
Per evitare l’affollamento sulla montagna c’è chi ha proposto di limitare non solo il numero complessivo di permessi rilasciati a ogni stagione ma anche le dimensioni delle squadre, non più di dieci clienti per gruppo. Ma c’è chi è convinto che non succederà: «Una regola del genere non verrà mai imposta. L’Everest è un grande affare per il Nepal, che non rinuncerà mai a quel denaro», sostiene il neozelandese Guy Cotter, cinquantenne proprietario di Adventure Consultants, che ha guidato 19 spedizioni sull’Everest.
Il Nepal ha quasi 30 milioni di abitanti e una persona su quattro vive in povertà. Il paese si trova in una specie di limbo. Dopo l’abolizione della monarchia è stato formato un governo di coalizione, ma gli ultimi sette anni sono stati difficili, segnati da lotte tra i partiti politici e dalla mancanza di una costituzione definitiva. Il sistema politico è «talmente corrotto e inconcludente», ha affermato Kunda Dixit, direttore del Nepali Times, «che non avere un governo è quasi un vantaggio; perlomeno nessuno commette errori».
Secondo lo sherpa Ang Tshering, proprietario di Asian Trekking, nella primavera del 2012 le spedizioni sull’Everest hanno portato in Nepal circa 12 milioni di dollari. E il ministero ne ha guadagnati più di tre grazie alle imposte sui permessi rilasciati ai componenti di 30 gruppi stranieri. «Non dimentichiamo che lo Stato nepalese è quasi in bancarotta», aggiunge Cotter. «Un maggiore intervento da parte del governo incoraggerebbe soltanto più corruzione». Dave Hahn, guida d’alta quota che detiene il record americano per aver raggiunto la vetta 14 volte, concorda: non è realistico aspettarsi soluzioni dal governo nepalese. «Gli operatori devono trovare insieme il modo di autoregolamentarsi». «Il ministero è dominato da una burocrazia diffusa e inefficiente», aggiunge Conrad Anker, 50 anni, che ha guidato la spedizione del 2012 promossa dalla National Geographic Society. «Solo una piccola parte dei tre milioni di dollari ricavati ogni anno dalle licenze viene reinvestita nella montagna». (Il ministero è stato ripetutamente contattato per questo articolo ma si è rifiutato di rilasciare una dichiarazione).
Il cosiddetto “sistema del funzionario di collegamento” è un ottimo esempio di questa inefficienza. A ogni squadra diretta sull’Everest viene assegnato un funzionario di collegamento che viene pagato dal gruppo e dovrebbe garantire il rispetto delle regole. In realtà nessun funzionario affronta la scalata. «La maggior parte non rimane neppure al Campo Base», spiega Anker. «Preferiscono tornare indietro dove fa meno freddo». Secondo Anker questi funzionari dovrebbero essere sostituiti da guardie forestali con le competenze, la capacità e la voglia di pattugliare la montagna e far applicare i regolamenti. Sarebbe anche auspicabile la presenza di una squadra di salvataggio e ricerca permanente.
Dieci anni fa Anker e sua moglie Jenni hanno fondato il Khumbu Climbing Center (Kcc) nel villaggio di Phortse per migliorare le capacità alpinistiche degli sherpa e quindi incrementare il livello di sicurezza di tutti coloro che scalano l’Everest. Molti degli oltre 700 diplomati del Kcc oggi lavorano per gli operatori che organizzano le spedizioni. Dopo tutto sono proprio gli sherpa a compiere il maggior numero di salvataggi. Lo sherpa Danuru, diplomato al Kcc che ha raggiunto la vetta 14 volte, racconta di aver trascinato via dalla montagna almeno cinque persone per salvare loro la vita.
«Uno dei grandi problemi è che i clienti non rispettano l’esperienza e le conoscenze degli sherpa», spiega Anker. Ma la colpa è anche degli sherpa stessi, quasi tutti buddhisti tibetani, portati a evitare confronti diretti per motivi culturali e religiosi. «A volte i clienti ignorano i loro consigli e muoiono», prosegue Anker. «Lo dimostra ciò che è accaduto l’anno scorso. Stiamo cercando di aiutare gli sherpa a diventare più autoritari». Anche la tecnologia moderna, già onnipresente sull’Everest tutti al Campo Base hanno accesso a un telefono cellulare o a Internet può contribuire a rendere la montagna più sicura. L’estate scorsa, nel corso di un incontro con il ministero, Anker ha proposto che insieme a ogni permesso sia rilasciata anche una tessera identificativa.
«Questa speciale tessera Everest conterrebbe dati utili a salvare la vita di un alpinista o di uno sherpa», spiega Anker. Avrebbe la foto del titolare e un QR code, l’evoluzione del codice a barre, che potrebbe essere «letto da uno smartphone in dotazione alle guardie forestali per rivelare tutte le informazioni pertinenti: età, esperienza, dati sanitari, allergie, assicurazione, famiglia, numeri di telefono per le emergenze e via dicendo».
Anker dice che i burocrati di Kathmandu sono rimasti lì a fissarlo inespressivi quando ha fatto la proposta. «Ho persino preso il mio cellulare per mostrare loro come funzionerebbe. Siamo nel 2012, non è difficile. È una sorta di ski pass».
NONOSTANTE TUTTI i PROBLEMI, l’Everest resta una montagna unica. Ci sarà sempre qualcuno pronto a scalare la vetta più alta del mondo, perché salire sull’Everest è un’esperienza che va ben oltre l’essere circondati dalla folla o trovarsi davanti cumuli di immondizia. Questa montagna è così alta e indifferente da spingere ogni alpinista a tirare fuori prima o poi il meglio di se stesso. L’Everest offre sempre qualcosa di straordinario. Non dimenticherò mai la vista mozzafiato che si godeva dal Campo 2, con le nuvole che avanzavano lente sulla valle glaciale del Western Cwm come una valanga al contrario, ne il sollievo ristoratore di una zuppa bollente al Campo 4. O, ancora, lo scricchiolio dei miei ramponi sul labirinto cristallino della cascata Khumbu subito sopra il Campo Base. Conservo un ricordo prezioso degli amici con cui ho scalato. Ho affidato loro la mia vita e loro hanno fatto lo stesso con me.
Momenti come questi spiegano perché gli alpinisti continuano a tornare sull’Everest. Non si tratta soltanto di raggiungere la vetta, ma di mostrare rispetto per la montagna e godersi 1 esperienza. Adesso sta a noi riportare il buon senso sulla vetta più alta del mondo.