Malcom Pagani, GQ maggio/2013, 12 giugno 2013
AERO GRILL
Il rumore della vita è una ruota che gira. Piccoli indiani dal pianto facile. Incravattati africani con la ventiquattrore. Mal vissuti yankee in canotta col volto bruciato dai tristi tropici. Uomini d’affari, modelle, turisti, famiglie in marcia. Tutti con il trolley. Avanti e indietro, trascinando esistenze, rimpianti e portafogli nell’ovatta di Heathrow. Terminal 5. Luci basse, riciclo protoambientalista dei materiali al potere, poltrone cubiste, vetrate sul cielo carico di neve. Scintillante bellezza, fosforo e fantasia d’insieme dipinte da Richard Rogers, genio italiano emigrato a Londra cinquant’anni fa, da sempre persuaso che non si possa immaginare architettura funzionale «senza pensare alla gente». E qui la gente, con lo scudo fiscale del duty free nel cuore e il documento nella destra, spende. Un cambio valuta ogni dieci metri. Ostriche e caviale, brillanti e liquori, sigarette, cashmere e collezioni d’alca moda. Il forziere custodirò dagli inglesi. La Las Vegas dove si atterra solo se si è clienti British Airways. Visto in soggettiva, il fotogramma di un ordinario pomeriggio di shopping e astrazione tra un decollo e l’altro, è un’impressione ingannevole. Per capire meglio devi inerpicarti. Salire su scale mobili profonde come gole. Superare imbonitori con brillantina e auricolare che, protetti dagli stemmi di Clarins e linguaggio da rodata televendita, accalappiano le signore per trattamenti gratuiti: «Vedrà che morbidezza, dopo». Ignorare le smorfie, i baci e le effusioni che dai maxischermi, ipnotiche, rifrangono distrazioni, bellezze in amore, pubblicità e messaggi subliminali. Arrivare in alto. E vederli, finalmente, per scoprire che sono molti di più. Migliaia di migliaia. Comparse nel Truman Show del consumo tra una tappa e l’ altra del pianeta. Cittadini del centro commerciale che riassume tutti gli omologhi di genere. L’occhio all’orologio, i passeggini trascinati con sorprendente rudezza, gli stivali a battere il ritmo della fretta, le corse dell’ultimo istante per agguantare ascensore e coincidenze che affastellino le buste di Harrod’s e riallineino le individualità nei 25 centimetri di un’economica, strappandole dal sogno. Per pensarli così, dare plastica forma a una globalizzazione che appiana e incasella nello stesso hamburger gusti e aspirazioni del cittadino di Accra, Phoenix o Madrid e contrastare l’aggressiva espansione di Dubai allargando il recinto, ci sono voluti quindici anni. Non il viaggio come scoperta, ma l’eterna partenza utile a ritrovarsi felici nel rassicurante tinello della fruizione selvaggia, compulsiva e sentimentale. Costretto nei paletti di un lusso alternato alla griffe da grande magazzino, lontano da casa, il popolo di Heathrow asseconda il flusso di un obbligato movimento ondulatorio. Supera body scanner, tornelli e controlli di sicurezza con febbre simile all’ultrà in fila per la finale di Champions League, lamenta smarrimenti di oggetti preziosi, discute con gli energumeni in divisa che danno il visto per la voluttà e poi ottiene il via. Una volta dentro, sotto l’occhio vigile di centinaia di telecamere, il sinedrio si abbandona alla dittatura della maggioranza. Un elastico impazzito che si tende da una parte all’altra del terminal e, vinto dai chilometri, sceglie dolci ammutinamenti alimentari (scatole di Bounty a prezzi stracciati dai grossisti di WHSmith), birre di conforto, whisky offerti da sommelier. I meno arrendevoli cercano ancora. Esplorano i satelliti del World Duty Free. Heathrow 5, settori B e C (Autogrill Spa, più di 40 aeroporti tra Spagna e Gran Bretagna, partecipa con piena soddisfazione all’esclusiva gestione dell’affare) e poi, scavalcati altri check point, ritornano al punto d’incontro. Dove i banchi informativi disprezzano la scaramanzia e tracimano di inservienti in giacca viola che, come annunciano i manifesti, si occupano di tè «dallo spazzolino al divertimento, senza lasciarti mai solo».
Con passi calcolati, nella Mecca dello shopping detassato, nei trentaseimila metri quadri di esposizione che come un canto delle sirene suonano nella campagna inglese il ritmo di un affare da concludere in giornata, l’acquirente seriale si muove decrittando mappe colorare. Dal viola al verde, perché per ogni antro dal design iper-rifinito, esiste una zona d’incidenza capace di far breccia, un richiamo implicito: «Visitami, non te ne pentirai», un tavolo di ipotesi liete che lotterie istantanee da «un milione di sterline» introdotte da scritte luminose e piazzisti di illusioni giurano di trasformare in realtà.
Nella collocazione avvolgente dei negozi, nella scacchiera che posiziona le cinquanta sfumature dell’investimento possibile e le trasforma in ipotesi erotiche con relativo tariffario, il bordello di Heathrow 5 ha prevenuto ogni contestazione. Godere è un imperativo categorico. Allo scopo, al riparo da qualsiasi ideologia, in un anticipato Armageddon di inizio stagione, perdersi nell’incantesimo di un percorso studiato è inevitabile. Opporsi, sconsigliato. Il tavolo è apparecchiato per l’esule di uno spring breaker piegato da vizi, fuso orario e alcolici, per la delegazione di Dar Es Salaam, per la comitiva di studenti di Entebbe che non conosce Amin Dada e si siede per terra in mezzo ai corridoi e per il notabile di Lagos lieto di farsi lucidare le Berluti dallo shoeshine bianco all’angolo di Gucci. Sovvertendo lo schema sotto i lampadari ottocenteschi della lounge, affogando nei cristalli colmi di Moèt & Chandon i dubbi sulle ingiustizie e gli squilibri, ristabilendo il più antico e resistente degli ordini mondiali. Un occhio al tabellone delle partenze, un altro alle vetrine. C’è ancora tempo prima della prossima dimostrazione delle hostess, dell’occhio vitreo e un po’ meccanico che ti segnala — in caso di dramma e come regolare benvenuto su qualunque aereo — l’eventuale, corretto, quasi sicuramente inutile utilizzo della maschera per l’ossigeno.
Extraterritorialità per extraterritorialità, meglio Stare a terra, circondati dall’ologramma di una sconfinata epifania. Ti spiegano dotti che le danarose borghesie dei Paesi in via di sviluppo, nascoste dai turbanti o dall’aspetto anonimo, si ritrovano qui. Che a ogni ricambio invernale, sui computer di chi muove i fili del sistema Heathrow, passano trenta milioni di nomi. E che accumulare sterline non equivale ad attendere l’atteso paradiso dello sceicco sciocco. La calata del folklore. L’apparizione post-felliniana dello spendi, spandi effendi con la Visa in platino. Ma al contrario, abiti, frutti e abbia messo solide radici nella terra della costanza. Il Carrier lo compri con 8.000 sterline e fuori lo pagheresti quasi duemila in più, ma per orientare latitudine e longitudine di un esperimento, è necessario che la bussola dell’acquisto indirizzi chiunque, anche solo per un caffè, a ristorarsi. C’è un solo punto cardinale, un’unica legge, un dio a cui affidarsi felici a Heathrow. Comprare, comprare e ancora comprare. Tra chi passa per caso (una squadra di pallamano marocchina che sotto i marmi dei bagni lava e asciuga piedi con coranica naturalezza) e chi presidia un tavolino per caricare i computer trascorrendo le ore ascoltando spezzoni di annunci in spagnolo, non si nascondono i personaggi di Tokyo Cancelled, il libro in cui Rana Dasgupta ambientava le sue digressioni sull’esistenza, affidandole a 13 passeggeri costretti a pernottare in un aeroporto afflitto da una tormenta di neve, raccontandosi il dolore e la felicità all’ombra di un nastro trasportatore. E tacciono per mancanza di controprove le umanità che, proprio a Heathrow, Alain De Botton aveva ritrovato travestendosi da Tom Hanks e ancorandosi per una settimana alla virtualità di un Hub. Prigionieri politici in attesa di un visto, naufraghi, nettatori di latrine fermi allo stesso cesso, da più di 40 anni. Sul volo di ritorno per Roma, British imbarca pakistani e giapponesi, patiti londinesi del Vespa Tour nella Tuscia e uomini d’affari che avevamo intravisto nell’alba romana e che messa la firma in banca, a due passi dal ponte dei frati neri, offrivano generalità per la riammissione nella culla del Vaticano. A bordo non c’è un posto libero. Volti satolli. Cappelliere gonfie di peccato. Grandi mele bianche. Acquisti tecnologici. In Più lontano ancora Jonathan Franzen sostiene che le specie umane abbiano «lasciato posto a una folla universale di individui la cui caratteristica saliente è quella di apprezzare identiche forme di intrattenimento». Le hostess versano succhi e Coca-Cola e spacciano cataloghi. Il cielo è scuro. La notte giovane. Non c’è attimo fuggente che non si ripresenti. La setta dei compratori estinti è in ottima salute e ha fame. Ha fame ancora.