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 2013  giugno 12 Mercoledì calendario

UNA SPLENDIDA ERESIA

Posso raccontarle una storia? La storia di come lei, senza saperlo, ha salvato una vita?». Giorgio Armarli mi guarda incuriosito. Pure la mezza dozzina di ritratti che lo circonda nel suo studio sembra in attesa. «Era la mattina dell’ll settembre 2001. Un giornalista italiano, il mio amico Marco De Martino, aveva appuntamento con lei a Manhattan per un’intervista. Lui abitava uptown e aveva pensato: scendo in ufficio downtown, poi da lì raggiungo Armani. Se avesse seguito la tabella di marcia sarebbe stato alla sua scrivania alle nove, avrebbe sentito cadere la prima torre, si sarebbe precipitato al World Trade Center prima che bloccassero gli accessi e la seconda torre gli sarebbe franata addosso. Invece ha tardato mezzora. Sa perché? Ha passato mezzora nel proprio guardaroba, chiedendosi: come ci si veste per andare a intervistare Giorgio Armani? Dopo molti cambi ha scelto un abito sartoriale blu. Due ore dopo era coperto dalla cenere che saliva da Ground Zero. Quell’intervista non si fece mai, ma lui è vivo e in qualche modo glielo deve». Come ci si veste per andare a intervistare Giorgio Armani? Alla fine ho emulato Marco: abito sartoriale blu. E l’intervistato? Facile: jeans e T-shirt blu scuri. Una divisa. Ma ne parleremo, come parleremo della vita, delle sliding doors, di politica e di dove casca l’asino.
Ricevendo l’Oscar, Roberto Benigni ringraziò i suoi genitori per «il dono della miseria». Lei non l’ha conosciuta, ma proviene da famiglia non agiata, è cresciuto in un periodo storico difficile. Pensa che, alla fine, questo sia un vantaggio?
«In un momento in cui esiste una forte mobilità sociale, sì. I miei mi passavano i vestiti di mio fratello maggiore, perché non avevano soldi per comperare cose diverse da ciò che era indispensabile per vivere. Ero consapevole dei loro sforzi e questo accentuava il mio senso di responsabilità e la stima che provavo per loro, per quel modo silenzioso e dignitoso di fare fronte alle difficoltà. Mi hanno insegnato molto, senza parlare. E sono loro ancora grato per questo».
Qual è il dono, in senso immateriale, più importante che le hanno fatto i suoi genitori?
«Il senso della dignità, anzitutto. Poi, la tenacia. E la forza d’animo, che li ha aiutati a superare momenti difficilissimi».
Lei sognava di fare l’attore. Poi il medico. Quanto di queste mancate -vite è rimasto dentro di lei?
«Conservo la passione per il cinema, ma è piuttosto il ruolo del regista ad affascinarmi. Mi colpisce per la sua capacità visionaria di raccontare storie e momenti, di restituire intatti sentimenti e atmosfere. Quanto al medico, mi rimane il ricordo di quel desiderio, se non il rimpianto».
Un rimpianto di famiglia: i suoi la volevano dottore. Con tutto quel che riconosce di aver ricevuto, se l’è poi sentita di deluderli?
«Non potevo fare altrimenti. Vede, io non ero proprio portato per lo studio, non avevo il dono della sintesi. Rimpianto, certo: avrei potuto svolgere un ruolo utile per altre persone. Ma quando ho visto il lavoro dei medici ho capito che, da un certo punto di vista, mi è andata bene così: io già sono totalmente preso da quel che faccio, se il mio lavoro fosse stato curare i malati non avrei potuto dormire la notte pensando che da me dipendeva la salute altrui. Ma poi alla fine, di tante vite che si sarebbero volute a me sarebbe piaciuto anche fare lo scrittore ne resta una e bisogna dedicarsi a quella con tutta l’energia che si ha».
Qual è stato il momento in cui ha capito che il suo destino era la moda?
«Credo nel destino, penso che la mia strada nel mondo della moda sia cominciata quando iniziai a lavorare a la Rinascente».
Come ha capito che quella era la sua strada? Si è convinto da sé o sono stati i giudizi altrui?
«Semplicemente ho capito che in quel settore c’era tanto da fare. Troppi retaggi del passato, troppa pigrizia mentale. Si andava a Londra, si guardavano le vetrine di Jermin Street e quello era il massimo della creatività. Era necessario tagliare con questa tradizione così statica. Ho colto il momento».
È una parola che usa spesso: momento...
«Sì, sento dire che il mio momento è passato, era negli anni Ottanta e Novanta, ora è il momento di qualcun altro... ». E ci crede? «Dipende da che cosa si intende per momento, dipende da chi ha la forza di rinnovarsi e continuare a tenere in piedi un’azienda con settemila dipendenti, senza scambiare l’effetto spettacolare con la continuità».
Rewind, quando è scoccato il suo momento?
«Entrai in un negozio e chiesi una camicia a quadretti bianca e rossa. Mi risposero: vorrà dire una tovaglia. Lì capii che nella moda maschile era tempo di cambiare».
Sa che faccio fatica a immaginarla con una camicia a quadretti bianca e rossa? Lei è sempre vestito alla stessa maniera...
«È l’iconografia che mi hanno cucito addosso. Una divisa».
Con un che di fondamentalista.
«Mannò, io ho voluto liberare l’uomo, concedergli la diversità, valorizzare i suoi difetti. Questa è libertà, per me: nulla è predeterminato, ma cade addosso alla persona, seguendone le linee».
A quel tempo, mentre reinventava la moda, la sua felicità, ha raccontato, era girare in Lambretta senza pensieri. E oggi?
«Stare sospeso tra mare e cielo, sulla mia barca».
Il dolore fisico e il dolore morale: che cosa è insopportabile?
«Lo sono entrambi, eppure bisogna sopportarli, anche perché non ci sono alternative».
Il lutto è senza pace? Le persone che ha perduto sono ancora con lei? Come?
«Dopo la perdita assoluta, irreparabile di qualcuno che ami più di tè stesso, che ti riempiva le giornate, che era accanto a tè giorno per giorno, resta soltanto il ricordo, che per quanto mi riguarda non svanisce mai. Certo, diventa meno duro ma è sempre struggente. Del periodo che seguì la morte di Sergio Galeotti, ricordo soltanto una sensazione di buio. A volte ho l’impressione di aver cancellato tutto, eppure il dolore resta sempre in agguato».
Che prezzo ha pagato alla sua vita per il lavoro? E lo ripagherebbe?
«Tutto il mio tempo e a volte penso tutta la mia energia, la mia passione, la mia intensità. Penso di aver perso un po’ i contatti perché vivo in un mondo circoscritto, contornato dalla famiglia e dai collaboratori. Eppure, se dovessi tornare indietro, credo che lo rifarei».
Ha detto: «Non accetterei più di non avere successo». Non c’è nobiltà nel fallimento? Chi giudica (il pubblico, la critica) non può sbagliare?
«Certo, pubblico e critica possono sbagliare, sedotti da una certa aria del momento. Non credo che l’unica legge sia quella del successo, dunque non riuscire è possibile e non cambia la natura delle persone. Accade. Ma per quanto mi riguarda, voglio continuare ad avere successo, anche perché a questo punto non sono l’unico a cui appartiene, ma almeno ad altre settemila persone».
Si perdona?
«Non ho alcuna indulgenza verso me stesso e imparare ad accettarmi avrei voluto essere diverso fisicamente, meno timido è stato un impegno durato anni. Talvolta penso che la mia vita sia stata un esercizio continuo a inquadrare la mia personalità nel mondo esterno».
Che cosa pensa sentendosi paragonare a Luigi XIV o definire un principe malinconico?
«Che esagerazione! Poi sono più allegro e ironico di quanto sembri. In ogni caso mi imbarazza moltissimo».
Lei genera in chi la segue una passione totale. Qualcuno ha usato il termine “setta Armoni”. Che cosa determina questo sentimento?
«Non bisognerebbe chiederlo a me, ma alla “setta”, come mi dice vengano chiamati amici e collaboratori. Forse dipende, più che dall’intensità dei rapporti, dai valori comuni che sono legati strettamente al mio marchio. Come me, non possono prescindere dal disagio per la volgarità, da una certa esigenza di pacatezza. Lo so, sembro un tiranno, esigo una fedeltà assoluta e cancello chi si allontana dalla mia orbita, ma senza acredine».
Pensa di avere un contatto con la realtà o di vivere in un mondo a parte?
«Penso siano vere entrambe le cose, ed è questa apparente contraddizione a guidarmi nella vita e nel lavoro».
Il cinema ha contribuito alla sua affermazione. Amava i film che “rivestiva”? Quali sono i film della sua vita?
«Quando mi richiedono di partecipare attivamente, accetto soltanto il film che mi interessa. Ho amato American Gigolò, il mio esordio nel mondo del cinema, e Gli intoccabili, dove ogni abito esprimeva il carattere del protagonista. Ma anche Strade di fuoco, di Walter Hill, brutale e innocente, storia di una gang di ragazzi, e infatti in quel caso scelsi capi Emporio Armani. Sono molti i film della mia vita, a cominciare da La corona di ferro, di Alessandro Blasetti, il primo che mi ricordo. Importanti sono stati Notorius, l’eleganza allo stato puro, e Vertigo, una sospensione abbacinante della realtà. Ma anche tutto Roberto Rossellini, Visconti, Antonioni. Frammenti di vita, più che cinema. Non vorrei dimenticare quelli che appartengono a un “passato” recentissimo, come Giuseppe Tornatore e Gabriele Salvatores, e tutti quei giovani registi che hanno realizzato opere di grande intensità, come Luca Guadagnino».
Libri?
«Vorrei averli letti tutti, perché mi sembra che dovrei conoscere tutto ciò che è stato scritto prima, per essere in grado di leggere ciò che arriva dopo. Ma certo. La cittadella di Cronin è indelebile: mi spinse addirittura a iscrivermi a medicina».
Che cosa deve succedere in una sua giornata perché possa chiuderla con soddisfazione?
«Aver lavorato bene, superando gli ostacoli, ed essere rimasto me stesso. Credo che un uomo, più rimane se stesso, più è ammirevole».
Riesce a dormire serenamente?
«Come chi ha lavorato molto e desidera riposare».
Una volta ha detto di preferire il tempo trascorso in cui erano identificabili bianco e nero, destra e sinistra. Benvenuto in questo marasma. Come ci si trova?
«A disagio. Non trovo più nè la buonafede ne il sentimento vero della politica. Non provo sicurezza per le mani a cui siamo affidati. Troppa improvvisazione, troppi giovani impreparati. Non che difenda i vecchi baroni, ma bisogna almeno aver studiato». Negli anni Novanta si definì «un rivoluzionario che non ha voglia di accettare il sistema». E oggi? «Non mi sento cambiato, anche se mi riferivo ali’ambiente della moda, che per certi versi mi piace sempre meno. Perché tutto è lecito, tutto è possibile. Cerca stampa è sempre pronta a gridare al miracolo, alla meraviglia. Così bisogna rincarare la dose in un circuito sempre più spinto di immagini eccessive e di mercato inconsistente. Mentre io faccio vestiti con i quali intendo parlare alla gente».
Se un regista fa un film pessimo, la critica lo stronca. Possibile che nessuno stronchi mai una collezione di moda?
«Io accetto le critiche, quelle dirette. Quanto agli altri, spesso la stampa si sente obbligata a non farne. Ci sono stilisti protetti. Le papesse della moda ne decretano il talento e gli altri, meno influenti, si accodano. Ma bisogna distinguere chi fa spettacolo e chi vesce la gente».
E qui casca l’asino.
«L’ha detto lei. Sa quante volte mi è capitato di essere davanti a una vetrina e sentire chi stava alle mie spalle chiedersi: ma che roba è».
Di chi era la vetrina?
«Non mia».
Si può fare una rivoluzione restando fedeli a se stessi, irriducibili?
«Sì, se tu sei il cuore di questa rivoluzione».
La democrazia è un lusso?
«No, la democrazia è un bene primario e insostituibile».
Crede di credere?
«E un sentimento complesso e molto personale. A volte confuso. So che credere è un conforto, ma è anche una grazia e forse non è di tutti ottenerla».
Guardandosi indietro: quale la sua eredità?
«Dirlo, spetta agli altri. Io posso affermare soltanto di aver vissuto con rigore e disciplina, e di aver tentato di far coincidere l’estetica con l’erica. E mi piacerebbe pensare di aver mostrato che i generi maschile e femminile hanno molti valori da scambiarsi».
Il suo stile è stato davvero l’essenza dell’italianità o una splendida eresia? Linee morbide per un Paese senza linea e colori tenui per persone doublé face?
«E nato come un’eresia, fortissima, ardita, solitaria, e se poi è diventata “essenza dell’italianità” ne sono orgoglioso. Ma continuo a pensare che si tratti di una scelta solitaria, perché raramente ne ritrovo gli stessi principi in altre espressioni».
La bellezza della vita ha bisogno di materia che la fissi?
«È sempre stata fissata dalla materia, che si tratti di marmo o di un tessuto».
Per che cosa ogni cosa è valsa la pena?
«Per questa vita. Anche se ogni giorno continuo a imparare come si vive».