Susanna Legrenzi, Io Donna 8/6/2013, 8 giugno 2013
“DATEMI TRAPANO E SALDATORE. REGALERO’ UN’EMOZIONE AI TORINESI”
L’INDIRIZZO È NICHELINO BASE ALPHA, cintura torinese. Ad accoglierci è un’officina a cielo aperto: tubi di metallo, sacchi di cemento, viti, bulloni. Ci lavorano ragazzi che vanno e vengono. Chi non stacca mai è Martino Gamper, casa studio a Londra, primo celebre progetto 100 Chairs in 100 Days and its 100 Ways, avvistamenti dal Victoria & Albert Museum a Sotheby’s al pugno di verde pubblico dove lo incontriamo, arrampicato su una scala. La scommessa sono quattro giorni di cantiere. Quattro giorni per capire da vicino che cosa significa “bottoni up”, in altre parole che cosa accade quando progettista e gente come noi decidono di dare assieme una forma al futuro, intercettando in presa diretta bisogni e desideri. «Non quelli degli anziani che qui, a Nichelino, hanno un luogo dove giocare a scacchi e ballare il liscio, ma quelli dei giovani che non hanno ancora trovato un “posto”» confida Gamper, in pausa tra la betoniera e il saldatore. «Ho incontrato i ragazzi la prima volta questo inverno, ci siamo scambiati qualche idea e abbiamo iniziato a lavorare. Il primo progetto è stato un’architettura effimera, una grande bolla, realizzata con coperte di primo soccorso. La scommessa era creare qualcosa di temporaneo ma riutilizzabile. A gennaio, nella bolla, il sindaco ha indetto una seduta di giunta».
I vostri materiali provengono dal Magazzino Comunale: arredi urbani, macchinari, urne per le votazioni...
Il metodo di lavoro non è molto distante da quello in studio. Nel mio modo di fare design il riuso è sempre stato una risorsa. Viviamo in un mondo consumista: quando qualcosa non funziona, lo buttiamo. Io riparo sempre: da piccolo riparavo l’aspirapolvere di mia madre. Creare valore con cose che l’hanno perso è più bello che disegnarne di nuove.
Che significa progettazione partecipata?
Nichelino assomiglia a tante altre periferie. Il cantiere di autocostruzione ha una funzione riparatoria, cerca di colmare un vuoto, dare una forma a desideri altri. Dal punto di vista del contatto umano è interessante: progettazione partecipata significa aprirsi all’imprevisto, a una committenza diversa, ragazzi che vogliono qualcosa che dia un’identità al loro luogo di ritrovo. La sfida è alta. Alla fine non saprai mai se sei riuscito a cambiare qualcosa o hai fatto un progetto che, come un ufo, ridisegna il paesaggio.
Come comunicano design in edizioni limitate e design in prima linea?
Talvolta mi dicono che faccio design solo per ricchi, giocando su una piazza pulita, dove c’è molto denaro. Penso che, ad avvicinarli, sia il metodo. Creare qualcosa dove prima non c’era mente, prendere una sedia e trasformarla in oggetto desiderabile per un collezionista non è così diverso da partire da zero e progettare qualcosa di utile per la collettività. Quando il design è in grado di creare qualcosa che la gente riconosce come nuovo ha già svolto una sua funzione. Non è il prezzo che rende il design democratico. Produrre a basso costo in aree del mondo con manodopera a basso costo non è democratico.
Come nasce questo modo di vedere?
Dalla mia formazione: a 14 anni ho lasciato la scuola per lavorare in una falegnameria. Il concetto m’interessa, ma poi. devo fare, altrimenti non mi vengono le idee.
Già sperimentato pratiche di questo tipo in passato?
A Londra, a Shoreditch dove abito c’è una piccola collina, Arnold Circus. Negli anni ’80, l’area ha subito un forte cambiamento, le famiglie sono andate via, la zona è diventata pericolosa, si spacciava. Col comitato di quartiere, abbiamo iniziato a organizzare picnic, riparato il padiglione, ho disegnato uno sgabello per gli incontri. Oggi ci si sente al sicuro, la comunità è tornata a essere padrona dello spazio.
Funziona sempre?
Non è detto. Ma il processo riscrive le regole. Questo è già importante.
Per Arnold Circus siete partiti dai picnic per poi avviare altre attività. Il cibo è sempre un collante?
Il cibo è un processo creativo non molto distante dal design. Hai un ingrediente, diversi metodi, il fattore del tempo. È una storia di combinazioni, gusto, colore, l’orologio, l’acqua che bolle e tu che devi reagire velocemente. E poi c’è l’aspetto sociale. Si cucina per gli amici, per gli altri, si cerca di coinvolgere la gente e creare situazione dove non solo si mangia ma si discute, c’è scambio, ci si aiuta. È nata così anche la nostra Trattoria Sociale. A me, a Maki Suzuki, Kajsa Stahi e Ale Rich è sempre piaciuta la buona cucina. Conosco quel mondo, da studente ho lavorato come cuoco, aiuto cuoco e cameriere. Se pensi al design come un oggetto sul piedistallo bianco di una galleria, è abbastanza noioso; se hai mobili e hai il cibo, è un’altra cosa. Trattoria Sociale è nata quando a Londra nessuno di noi aveva trovato un posto dove mangiare e allo stesso tempo sentirsi a casa.
A Nichelino Base Alpha sono le 16. Da un China-Express sono in arrivo le pizze. In modalità “Bottom Up” si decide democraticamente che le priorità sono altre. Per dirla alla Alberto Sordi: “Se magna”. Quale sia il futuro di Base Alpha non possiamo saperlo. Dal 2012, il centro-laboratorio per giovani costruito nel quartiere Barca è stato acquisito nelle collezioni permanenti del MoMa. Il cerchio si chiude.