Alberto Giuliani, Vanity Fair 12/6/2013, 12 giugno 2013
NON C’E’ POSTO PER PIANGERE
«Mi sa dire come lo hanno assassinato?».
«Asfissiato, con una busta di plastica». Dopo quelle parole solo il silenzio, senza fine, come la morte.
Quando il poeta Javier Sicilia riceve questa telefonata nel cuore della notte, si trova nelle Filippine per un premio. Mentre nel suo Messico il figlio Juanelo, 24 anni, viene sequestrato e ucciso brutalmente assieme ad altri sei ragazzi. Vittima innocente di una guerra che negli ultimi anni ha seppellito 160 mila morti, costretto a migrare 250 mila persone, creato 40 mila desaparecidos.
Sul volo che lo riporta in Messico, Sicilia compone un poema dedicato al figlio, che termina con la parola «silenzio». Vi mette un punto, e giura che non scriverà mai più: «Perché di fronte a simili barbarie e alle menzogne di chi le copre, l’uomo non merita più la parola; il silenzio è molto più dignitoso».
Il giorno del funerale, brandendo la bandiera della nazione, Sicilia inizia a camminare verso la capitale, per vedere in faccia il presidente della Repubblica Felipe Calderón. Lui è responsabile di tutte quelle morti, e lui deve una risposta al Paese intero. Lungo il cammino, altri si uniscono spontaneamente a lui, e all’arrivo ai piedi del Palazzo presidenziale, si contano almeno 200 mila persone. Sono le famiglie dei desaparecidos che quel 5 maggio 2011 hanno vinto la paura.
«Signor presidente, le chiedo un minuto di silenzio per i suoi morti»: sono le prime parole di Sicilia davanti a Calderón. Poi si toglie il crocifisso che porta al collo fin da bambino, e glielo porge assieme a una lettera, nel nome di tutti i padri che cercano i propri figli. Usa parole durissime, che accusano il governo e la classe politica di corruzione, violenza, crudeltà, crimini verso l’umanità. E conclude con una frase che diventa il grido di tutte le vittime: «Estamos hasta la madre», non ne possiamo più.
«Quando ti fanno sparire un figlio hai già fatto i conti con il peggio. Non hai più paura di nulla», dice Sicilia. Ha gli occhi di chi non ha più lacrime da piangere ma non si arrende alla vita. Porta al polso l’orologio del suo Juanelo, perché «mi sono rimaste solo le cose che lui ha toccato», e per ricordarsi ogni giorno che il tempo non si è fermato.
«È impossibile immaginare il domani», dice scandendo le parole Celia Salinas. Le hanno portato via la figlia Jessica una sera di sei mesi fa. Aveva 28 anni ed era incinta di 39 settimane. «Maximiliano, si sarebbe chiamato il bambino». Mi porta nella stanza che sarebbe stata del nipotino. Colorata, con i cassetti pieni di vestiti profumati e ben riposti. Prende in mano delle scarpine di raso celeste e dice sorridendo: «Quando torneranno, queste non gli andranno già più». Poi mi guarda e tra le lacrime aggiunge: «Non vedo l’ora che la mia seconda figlia si sposi. Così almeno potrò morire».
Non c’è destino peggiore del non aver destino. Non c’è pace e non c’è lutto per queste madri, senza un corpo sul quale piangere. A loro resta solo il ricordo, e quel dolore indescrivibile a cui l’essere umano non ha saputo neppure dare un nome. «Quando una donna perde suo marito si chiama vedova. Quando un figlio perde un padre, si dice orfano. Ma che nome abbiamo noi, che ci hanno fatto sparire padri, fratelli e figli?», si domanda Hanabel che da due anni cerca i tre figli maschi.
Melchor Flores da tre anni continua a servire la colazione, il pranzo e la cena al figlio Hernandez. Come se ancora fosse
seduto lì, con la sua famiglia. Maria Nuñez gira per la città di Torreón gridando il nome del marito Alfredo, «così, se lo tengono nascosto in qualche casa, almeno sa che non ho smesso di cercarlo».
«Se è morto sarà stanco», dice Araceli, madre di un giovane poliziotto scomparso, «perché non ha un posto dove riposare». «E se non è morto avrà fame? Freddo? Lo staranno torturando?». Ogni giorno queste famiglie si fanno mille domande, che finiscono sempre nello stesso vuoto.
Si calcola che, per ogni caso di scomparsa denunciato, ce ne siano venticinque taciuti. Per paura di finire come quelle madri, assassinate per aver cercato i responsabili del loro dolore. Cercare i colpevoli qui significa scontrarsi con gli interessi dei narcos, ma significa anche muoversi nella fitta rete che li lega alle istituzioni, alla polizia, all’esercito. In Messico i narcotrafficanti come la polizia adottano la tortura, hanno carceri clandestine, usano le armi e la paura. Rinchiudono i loro prigionieri con un cappuccio in testa in case che chiamano «di sicurezza». Qui, i narcos e la
polizia vivono dello stesso malaffare, che si chiama droga.
Sei anni fa il governo di Felipe Calderón dichiarando guerra al narcotraffico, ne eliminò i vertici. Ma la sua unica strategia era la propaganda. E il risultato fu che i narcos, esperti e armati come eserciti, si moltiplicarono avvicinandosi a qualsiasi cosa portasse profitto. Prostituzione, sicariato, estorsione, vendita di esseri umani. In poco tempo la violenza è diventata verbo, l’orrore quotidianità. Fino a rendere grottesco quel primo articolo della Costituzione messicana, che vuole il Paese fondato sui diritti dell’uomo.
Il vero paradosso è che non c’è logica, ragione politica o strategia militare che unisca tutte queste scomparse. L’essere umano qui è semplicemente diventato una merce. Sacrificato dai narcos per mantenere il potere in uno stato di terrore. Scannato, forse per vendere gli organi ai grandi ospedali americani sorti lungo il confine. Sequestrato, venduto e ucciso, per miserabili riscatti. «La gente non si accorge che sta solo aspettando il suo turno nella disgrazia», grida una madre disperata. Perché non c’è più ragione davanti alle fosse comuni di Guerrero e Sinaloa, con le loro 24 mila vittime innocenti, o ai corpi di migliaia di giovani sciolti nei pozzi d’acido.
Tutto questo però non può accadere senza la collusione delle istituzioni. Corrotte in modo sfacciato e spaventoso, anche sotto l’attuale governo di Enrique Peña Nieto.
«Il vostro potere oggi serve solo per amministrare disgrazia», scrive Javier Sicilia nella sua lettera al Presidente. È infatti proprio nelle mani della polizia che spesso spariscono le persone, i documenti, le vite.
Mariano aveva 17 anni. Era stato sequestrato, picchiato, e buttato in un furgone, quando la polizia lo ritrovò in un controllo di routine. Venne consegnato agli uffici locali del governo. Da qui chiamò la madre. Il tempo di andare a prenderlo, mezz’ora, e già qualcuno se lo era portato via, questa volta per sempre. «Sarà scappato con qualche bella ragazza», le venne detto.
«Sono menzogne, come quando hanno assassinato il ventenne Lopez. Hanno sostenuto che il ragazzo si era sentito male durante l’interrogatorio e loro hanno tentato di rianimarlo. Con due cavi elettrici». A raccontarlo sono Jose Martinez e Juliana Quintanilla, sindacalisti della vecchia guardia e difensori dei diritti umani. In un minuscolo ufficio nella periferia di Morelos raccolgono ogni giorno nuove testimonianze. Riempiono migliaia di fogli, incrociano informazioni, cercano di aiutare i parenti delle vittime in una delle città più violente del Messico. «Tutto questo un giorno verrà punito», dicono, pieni di rabbia.
In questa terra afflitta da tanto odio e sangue, è straordinario l’amore delle madri e dei padri delle vittime che si incontrano clandestinamente. In stanze di periferia, si abbracciano, piangono e lottano insieme, soli, per ridare dignità al Paese. «Questa è forse la vera poesia», mi dice Sicilia, e abbassa lo sguardo.