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 2013  giugno 11 Martedì calendario

AZZERARE I TASSI L’UNICA SOLUZIONE PER SALVARCI

Liberiamoci quanto prima dall’ideologia calvinista che sta soffocando l’Europa o sarà la fine. Non conquisteremo il Paradiso a tassi da usura. È davvero incredibile come i paesi mediterranei (compresa la Francia) non siano in grado di mettere alle corde la Germania «stasista» della signora Merkel. Eppure è bene che l’Occidente sappia quello che accade in Oriente. Sono usciti negli ultimi tre giorni dati che dovrebbero far riflettere e produrre come prima causa il rovesciamento delle politiche economiche che ancora oggi l’area euro sta attuando. Tendo conto però anche di uno scenario –per ora silente – che si sta determinando nell’economia globalizzata e che rischia di produrre la terza e definitiva ondata di crisi originata peraltro dalle medesime cause che hanno prodotto le prime due. Se ciò si verificasse, sarebbe una condanna senza appello per i governanti europei e probabilmente lo scivolamento di tutta l’area euro (compresa la Germania) nel Sud del mondo.
I dati su cui riflettere. Il primo è che in Cina sta rallentando. Tutti gli indicatori segnalano un deterioramento quantitativo e qualitativo dell’economia cinese. La produzione è cresciuta meno del previsto (più 9,2), così l’esportazione (più 1%, il dato più basso da un anno), il Pil cresce meno e l’inflazione arretra. La Cina ha la domanda interna in rallentamento e soffre per la caduta dell’economia mondiale. Ma c’è un terzo dato che non viene rivelato: ed è che la Cina non guadagna nulla dai suoi investimenti esteri, anzi ci rimette un sacco di soldi. Nell’ultimo anno è passata, ufficialmente, da un deficit di 26.800 a 85.300 miliardi dollari, il che segnala due cose: che forse i dati sulla bilancia dei pagamenti cinese non sono del tutto affidabili e che sicuramente la crescita cinese ha in questa esposizione estera il tallone d’Achille. A questo punto le autorità di Pechino si stanno interrogando sul che fare per sostenere la loro economia. Le possibili strade sono due: o aumentare la spesa pubblica per favorire investimenti, oppure allentare i tassi per incentivare la domanda. Ma entrambe per la Cina rappresentano rischi enormi. La prima a fronte di una domanda complessiva mondiale che non cresce potrebbe determinare una sovracapacità produttiva della Cina tale da minare il suo sviluppo industriale, la seconda rischia di alimentare una già preoccupante bolla speculativa immobiliare. È appena il caso di ricordare che la prima ondata di crisi mondiale si è originata dalla bolla immobiliare.
ABENOMICS
L’altro dato che arriva da Oriente è invece di segno opposto. Il Giappone sta sentendo il vento favorevole dell’Abenomics. Il Pil del Sol Levante nel primo trimestre è cresciuto del 4,1%, ben lo 0,6% in più delle più rosee previsioni. Il Giappone ha il secondo debito pubblico mondiale che però è tutto o quasi in mano alle banche giapponesi. E nonostante questa massa di debito, la Banca del Giappone ha stampato moneta, ha immesso liquidità nel sistema, il governo ha tagliato le tasse e ha sostenuto per questa via la domanda. Più o meno quello che – salvo il taglio del Fisco – sta facendo ormai da un quadriennio la Fed. Tanto a rimetterci sono i cinesi che detengono gran parte del debito americano. Ma sia la Banca del Giappone, sia la Fed, sia anche i cinesi ricchi oltre ai petrolieri stanno determinando sul mercato mondiale un’abnorme massa di liquidità che spinge verso un ulteriore finanziarizzazione. E questo è il rischio più forte: che si crei una bolla gigantesca e che il debito pubblico europeo (e italiano in particolare) venga acquistato e venduto senza nessun ancoraggio ai parametri economici reali. Rischiamo insomma che gli spread vengano usati in maniera distorta per generare profitti finanziari.
Questo è il mosaico al quale manca però un’ulteriore tessera: i dati dell’economia tedesca, che è in arretramento perché se rallenta la Cina e si pianta come s’è piantata la domanda europea anche per Berlino sono dolori. L’Europa insomma è paralizzata e rischia di affondare. La Bce dovrebbe fare la sola cosa possibile: azzerare i tassi d’interesse, spingere in direzione degli investimenti in economia reale, definanziarizzare il ciclo economico continentale. Può farlo? No, perché il non esiste una politica economica europea. Questo è il vero peccato originale dell’euro. Mario Draghi, costretto a un continuo cerchiobottismo dalla Germania, nella sua cassetta degli attrezzi non ha la disponibilità politica di incentivi al sistema delle Pmi per il «nein» tedesco. La Signora Merkel – e la faccenda dei dazi sui pannelli solari né solo il più recentissimo esempio – continua a pensare che gli interessi della Germania sono di tener buoni i cinesi, di spremere i gli altri partner, di lucrare sugli spread finanziari e di azzerare attraverso il rigore la capacità produttiva degli atri paesi e segnatamente dell’Italia che è (o era) nel manifatturiero il concorrente più pericoloso e attivo della Germania. Ma se le cose stanno così - e purtroppo stanno così - ha senso che l’Italia vada verso il suicidio? Ce n’è abbastanza per mettere in discussione l’adesione all’euro, o perlomeno a un euro governato in questo modo.
L’EXPORT NON BASTA
Gli industriali tornano a suonare la grancassa del cuneo fiscale convinti che l’export sia la soluzione di tutti i mali. L’osservazione dello scenario mondiale ci dice che non è così. C’è sempre meno spazio per esportare se si resta agganciati a questo euro perché gli unici mercati in crescita sono i due continenti americani, quelli dell’Est europeo e quelli del Far East: Cina esclusa, che ora soffre e attuerà presto misure protezionistiche su vasta scala, da aggredire con alta qualità e prezzi concorrenziali visto che anch’essi producono, ma con monete deboli. Bisogna stimolare la domanda interna, bisogna ridare slancio ai consumi, bisogna dare una robusta iniezione di credito per stimolare investimenti produttivi per incrementare la produzione e per questa via l’occupazione. Tutte manovre impossibili se si resta agganciati al treno di questo euro e se la Bce continua a dipendere dai veti tedeschi.