Andrea Morigi, Libero 8/6/2013, 8 giugno 2013
IMPARIAMO DAI TEDESCHI: FARE I NAZIONALISTI RENDE
Tolti i dazi e le dogane, i tedeschi hanno rispolverato l’autarchia.
Bisogna abitare a contatto con la loro mentalità e la loro prassi per capirlo. Ed è un lettore di Libero, da tempo residente in Germania, a suggerirci la chiave per leggere i comportamenti economici dei cugini teutonici. Uniti, compatti e d’un sol pensiero, fin da piccolini. «Io ho una figlia tedesca», confessa, «già in età scolastica il cittadino tedesco viene erudito sulle interazioni e sugli effetti esistenti fra la scelta in un acquisto e gli effetti sul benessere nazionale ed educato così a privilegiare i prodotti e manufatti del proprio Paese». Così, insieme all’inno nazionale, Deutschland über alles, s’impara anche a proteggere la propria economia. Al contrario, lamenta, da noi nessuno ci ha mai educato a pensare che «comprando una Golf finanziamo: un pezzo di strada in Germania, una pensione tedesca, una mutua tedesca, un parlamentare tedesco, il potere di acquisto di un cittadino tedesco».
Sono vite parallele, che ci propone, con lo sguardo rivolto, tanto per iniziare, anche ai decenni di storia che sono dietro le nostre spalle. Gli esempi che cita sono illuminanti. A Roma, nel 1977, il ministro del Commercio estero Rinaldo Ossola, osa apostrofare come «snob male informati» gli italiani che acquistano auto straniere. E lancia la campagna «Compriamo italiano». L’accusa si ritorce contro di lui, dopo le vibrate proteste di Bonn che chiede all’allora presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, la testa del «nazionalista» Ossola. Ovviamente la ottiene. Il mercato più ricettivo per le merci italiane, in fondo, è quello tedesco e ci si doveva piegare per sostenere l’interscambio. Timidamente, nel messaggio natalizio all’Italia, Mario Monti, ci aveva riprovato. Ma senza successo perché prevale «la logica del tipico sindacalista italiano, che si compra una Golf e va poi il giorno dopo a dimostrare contro la Fiat che non dà lavoro a suo figlio».
Senonché, proprio nel Land più popolato di italiani, il Baden Württemberg, attualmente ragionano più o meno allo stesso modo del compianto Ossola. Günther Oettinger, presidente della Regione, nel 2007, si scaglia contro i «traditori» della Patria che guidano automobili giapponesi. La Toyota reagisce, anche se serve a poco. Anzi, nel 2010 Oettinger sale di grado e diviene commissario europeo per l’Energia, su proposta della cancelliere Angela Merkel. Non si fa caso se Oettinger ha abbandonato la moglie per una donna di 25 anni più giovane di lui. Semmai la morale si fa valere per i politici italiani. A Berlino si bada alle cose concrete e la sua linea è più che condivisa. Rappresenta una garanzia per gli interessi delle case automobilistiche tedesche, quando si affrontano in sede comunitaria i delicati dossier sulle riduzioni delle emissioni. Da quella posizione si può intervenire efficacemente per bloccare o annacquare le direttive europee. O per piegarle alle esigenze della Bmw, della Mercedes e della Volkswagen.
Tornando al nostro connazionale, che vive nelle vicinanze di Stoccarda, vede allietate le sue serate davanti alla tv dalla pubblicità dell’olio per motori Liqui-Moly, orgogliosamente rivendicato come «prodotto esclusivamente in Germania. Anche le tasse le paghiamo qui. Noi creiamo nuovi posti di lavoro e di apprendistato». In tutto, quell’azienda occupa 580 dipendenti, ma il suo messaggio martellante risuona ovunque come una chiamata alle armi.
Non stupisce che un emigrato rimanga strabiliato quando si trova a vedere i Comuni italiani, compresi quelli di sinistra, rinnovare il parco macchine della polizia municipale con le Skoda. Ed è naturale che ne deduca che la ricchezza disponibile nel portafoglio italiano viene esportata all’estero.
Intanto i tedeschi gongolano. A loro dire - ce lo ricorda il nostro lettore citando puntigliosamente la stampa tedesca a partire dal 1976 - «il problema di base dell’Italia, paese di manifatture industriali, è che la sua bilancia dei pagamenti perde immediatamente il suo equilibrio commerciale appena inizia una fase di ripresa dei consumi. Cosicché ci si vede costretti a emanare nuove misure di restrizione, le quali a loro volta soffocano la nascente ripresa industriale». L’analisi risale a trentasette anni fa. E non ha ancora perso valore.