Dan Charles, National Geographic 30/4/2013, 30 aprile 2013
IL PREZZO DELLA FERTILIT
Nome: azoto.
Numero atomico: sette.
Non ha odore né sapore, eppure riempie il nostro stomaco.
È il motore dell’agricoltura, la chiave per avere cibo in abbondanza in un mondo affollato e affamato.
Questo elemento indipendente, poco incline ad associarsi con altri gas, è indispensabile per il funzionamento della fotosintesi: contribuisce alla formazione delle proteine e alla crescita delle piante. Il mais, il frumento e il riso, le coltivazioni a crescita rapida da cui dipende la sopravvivenza dell’umanità, sono tra quelle che hanno maggiore bisogno di azoto. In effetti, ne esigono più di quanto la natura da sola sia in grado di fornirne.
E qui entra in gioco la chimica moderna. Enormi impianti industriali catturano l’azoto inerte nei vasti depositi dell’atmosfera e ne forzano la combinazione chimica con l’idrogeno per formare i composti reattivi agognati dalle piante. I fertilizzanti a base di azoto – più di cento milioni di tonnellate l’anno al mondo – producono raccolti abbondanti. Se non ci fossero la civiltà umana non sarebbe quella che è. Semplicemente, il suolo del nostro pianeta non produrrebbe alimenti sufficienti a soddisfare i consumi dei suoi sette miliardi di abitanti. Quasi la metà dell’azoto presente nei muscoli e nei tessuti del nostro corpo, infatti, proviene da una fabbrica di fertilizzanti.
Ma questo miracolo moderno ha un costo. L’azoto liberato nell’ambiente soffoca gli animali dei laghi e degli estuari, contamina le acque freatiche e contribuisce persino al riscaldamento globale. Mentre il mondo affamato pensa già agli altri miliardi di bocche che avranno bisogno di proteine ricche di azoto, quanta acqua e quanta aria pulite sopravviveranno al nostro bisogno di campi fertili?
Il problema dell’azoto balza agli occhi soprattutto in Cina, paese che ama il suo cibo e teme possa esaurirsi. Un’ansia all’apparenza infondata: l’impressione è anzi che di cibo ve ne sia fin troppo. Al San Geng Bi Feng Gang, un ristorante vicino a Nanchino, mi sfila davanti una processione di pietanze: pesce al vapore, costolette di montone fritte, zuppa di foglie di crisantemi e uova, noodles di patate dolci, broccoli fritti, igname e ciotole di riso fumante.
«Mangiate sempre così bene?», chiedo all’agronomo Liu Tianlong, che mi accompagna a visitare gli agricoltori della zona. Per un attimo, il suo viso s’incupisce. «No», risponde. «Quando ero ragazzo, era una fortuna avere tre ciotole di riso al giorno».
Liu è cresciuto negli anni successivi alla grande carestia che colpì la Cina dal 1959 al 1961 e uccise quasi 30 milioni di persone. La catastrofe fu provocata in parte dalla siccità ma la responsabilità principale è da attribuire ai capricci del presidente Mao. Il “Grande balzo in avanti” voluto dal leader cinese impose la collettivizzazione dell’agricoltura e costrinse i contadini a consegnare i loro raccolti a una burocrazia centralizzata.
La carestia terminò ma la penuria di prodotti proseguì fino alla fine degli anni Settanta, quando i contadini riconquistarono il controllo dei raccolti. «Nel giro di due anni ci ritrovammo all’improvviso con un surplus di cibo», ricorda Deli Chen, cresciuto proprio all’epoca delle riforme in un piccolo villaggio di coltivatori di riso della provincia dello Jiangsu. Chen oggi è un agronomo e lavora all’Università di Melbourne, in Australia.
Tuttavia, i contadini cinesi diventati da poco imprenditori dovettero scontrarsi con un altro problema: la limitatezza del suolo disponibile. Tra il 1970 e il 1990 la popolazione crebbe di 300 milioni di persone: l’agricoltura tradizionale del paese stentava a tenere il passo.
Song Linyuan è un anziano ma arzillo contadino di un villaggio a nord-ovest di Nanchino. Un tempo, ricorda, cercava di rendere il più fertile possibile il suo mezzo ettaro di terra utilizzando un compost di rifiuti domestici e deiezioni di maiali e galline. Così facendo, aggiungeva ogni anno circa 110 chili di azoto per ettaro di terra. Song Linyuan raccoglieva dai 2.950 ai 3.750 chili di riso per ettaro.
Un risultato del tutto rispettabile: ora però l’uomo ne produce più del doppio: 8.170 chili per ettaro.
Perché? «Fertilizzanti migliori», spiega Song. Siamo in un negozio con altri agricoltori, che a questa risposta si lanciano in un’animata discussione. Per alcuni ha ragione, per altri il merito va alle sementi ibride. In realtà le due tecnologie sono collegate: le varietà di riso e frumento ad alta resa create dagli agronomi negli anni Cinquanta e Sessanta potevano raggiungere il loro pieno potenziale solo in presenza di maggiori quantità di azoto.
Il governo cinese fece in modo che le coltivazioni fossero ben nutrite. Tra il 1975 e il 1995 fece costruire centinaia di fabbriche di azoto, quadruplicando la produzione di fertilizzanti del paese, tanto che la Cina ne divenne il primo produttore al mondo. Oggi Song sparge sul suo terreno una quantità di azoto cinque volte maggiore, saturando i suoi campi di urea (una forma secca di azoto) con il lancio di manciate di granuli bianchi tra i germogli, e aggiungendo fino a 600 chili di azoto per ettaro. I coltivatori di ortaggi ne usano anche di più; alcuni ne spargono una tonnellata, o persino due, per ettaro. Pochi pensano di fare qualcosa di dannoso. «Non inquinano», dice Song quando gli chiedo degli effetti dei fertilizzanti sull’ambiente. Gli scienziati raccontano un’altra storia. Nei campi a coltivazione intensiva «i fertilizzanti a base d’azoto sono usati dal 30 al 60 per cento in più del necessario», dice Xiaotang Ju dell’Università di agraria di Pechino. Una volta sparsi sui campi, i composti azotati si diffondono nell’ambiente provocando modifiche spesso sgradite al pianeta. Parte dell’azoto finisce direttamente nei corsi d’acqua o nell’aria. Un’altra parte viene ingerita, sotto forma di cereali, da uomini e animali per essere poi nuovamente rilasciata nell’ambiente con le acque reflue e il letame proveniente dai sempre più numerosi allevamenti di maiali e galline del mondo.
Deli Chen ricorda che da bambino gli piaceva pescare. «Il fiume era pulitissimo, l’acqua era trasparente», racconta. Nel 1980 «i pesci non si vedevano più». L’opacità era in parte dovuta al proliferare del fitoplancton, segno che l’acqua era eutrofica, vale a dire ricca di nutrienti. Uno studio recente effettuato in 40 laghi della Cina ha rilevato una presenza eccessiva di azoto o fosforo in oltre la metà dei bacini (i fertilizzanti contenenti fosforo sono spesso responsabili della crescita di alghe nei laghi). Il caso più noto è quello del lago Tai Hu, il terzo del paese per grandezza, nel quale si verificano regolarmente impressionanti fioriture di cianobatteri tossici. Nel 2007 una fioritura molto estesa contaminò la riserva idrica di due milioni di persone nella vicina città di Wuxi.
L’eccesso di nutrienti danneggia le zone di pesca delle regioni costiere della Cina creando zone morte in cui alghe e fitoplancton fioriscono, muoiono e si decompongono consumando l’ossigeno e soffocando i pesci.
A dire il vero, la nostra domanda di cibo non è l’unica responsabile della situazione. Il processo di combustione che fa funzionare automobili e generatori elettrici rilascia nell’atmosfera ossidi di azoto, e quando questi composti ritornano al suolo con la pioggia agiscono anche come fertilizzanti (è questa l’origine di circa un quarto della percentuale di azoto del lago Tai Hu). In tutto il mondo però i fertilizzanti commerciali costituiscono fino al 70 per cento dell’azoto prodotto dalle attività umane ogni anno.
I batteri denitrificatori presenti nel terreno possono trasformare queste forme dannose di azoto nell’elemento originale benigno che compone quasi l’80 per cento della nostra atmosfera. Ma anche questo processo ha i suoi lati negativi: i batteri rilasciano piccole quantità di ossido nitroso, un potente gas serra. «Risolvere il problema dell’eccesso di sostanze nutrienti è la mia massima aspirazione», confessa Xiaotang Ju, uno dei componenti della cosiddetta “famiglia dell’azoto”, una vasta rete di scienziati cinesi impegnati in questa impresa titanica. Nel 1998 il padre di questo progetto, Zhu Zhaoliang, mise in allarme i partecipanti a un congresso del partito comunista cinese con una relazione sui pericoli dell’inquinamento provocato dall’agricoltura. Il presidente cinese dell’epoca, Jian Zemin, dichiarò che non si era reso conto che l’agricoltura potesse avere effetti tanto devastanti sull’ambiente.
Questi scienziati hanno iniziato a lavorare con piccoli gruppi di contadini mostrando loro che un uso inferiore di fertilizzanti non riduceva i raccolti, anzi poteva incrementare i loro guadagni. Hanno promosso l’uso del compostaggio e insegnato agli agricoltori come applicare i fertilizzanti sintetici quando e dove le piante ne hanno effettivamente bisogno. Tuttavia, ammettono di aver compiuto scarsi progressi. L’ostacolo principale è rappresentato dal fatto che la maggior parte dei contadini cinesi lavora nei campi solo part-time e non è interessata a risparmiare pochi yuan riducendo i fertilizzanti: per loro è più importante risparmiare tempo e conservare il lavoro in città.
A quanto pare, inoltre, nell’immaginario cinese la paura della mancanza di cibo è più potente della preoccupazione per l’ambiente. Huang Jikun, direttore del Centro per le politiche agricole cinesi, tenta spesso di convincere le autorità che le loro preoccupazioni sono infondate. «Continuo a ripeterlo, oggi la Cina è più sicura in fatto di cibo di quanto non lo sia stata negli ultimi 5.000 anni!». Ma agli occhi di amministratori e contadini l’idea di usare meno fertilizzanti equivale a sfidare la sorte e rischiare un calo disastroso della produzione.
È più probabile che nei prossimi anni la Cina e il resto del mondo usi maggiori quantità di azoto anziché il contrario. La popolazione continua ad aumentare e il consumo di carne è sempre più diffuso. Per nutrire maiali e bestiame è necessario produrre molti più cereali di quelli sufficienti a nutrire gli esseri umani. «Se la dieta cinese diventerà più simile alla vostra [occidentale] la pressione sull’ambiente sarà elevatissima», dice Xiaotang Ju. «Dobbiamo risolvere questo problema prima che sia troppo tardi».
UNA POSSIBILE SOLUZIONE si può osservare in una fattoria vicino Harlan, nell’Iowa occidentale. Qui 90 capi di bestiame pascolano in un campo verde e alcune centinaia di maiali grufolano nella paglia circondati da campi di erba medica, mais, soia, avena e orzo.
Ron e Maria Rosmann non usano fertilizzanti a base d’azoto, almeno non del tipo prodotto nelle fabbriche, ma lo aggiungono in modo biologico attraverso i batteri nitrificanti che vivono in noduli sulle radici di alcune leguminose come la soia, l’erba medica e il trifoglio, la coltura di copertura che Ron pianta in autunno per poi interrarla di nuovo prima di seminare il mais in primavera. Parte di quell’azoto viene catturato dal mais con cui vengono nutriti i maiali e dunque finisce nel letame che torna nei campi, e il ciclo ricomincia. Rosmann, a differenza di molti altri coltivatori biologici, non compra il letame dai suoi vicini.
«Uno dei nostri obiettivi è mantenere un sistema chiuso», spiega l’agricoltore. «Siamo un vero modello di fattoria biologica».
Ci inoltriamo in uno dei suoi campi. «Guarda che granturco», gongola Ron. «Quest’anno probabilmente ne avremo cinque tonnellate. Mi sembra di sentirli, “voi biologici non potete nutrire il mondo”. Non è vero, guarda che campo!».
I metodi di Rosmann però hanno un costo. Per iniziare, richiedono più lavoro. E i processi biologici sono più lenti di quelli industriali. Le colture che formano la riserva di azoto del suolo, come l’erba medica, non producono alti guadagni né sfamano tanta gente come il mais assetato di azoto.
Questo non è necessariamente un problema per l’America del Nord. Gli Stati Uniti, paese in cui la percentuale di terra coltivabile per persona è sei volte maggiore che in Cina, possono permettersi il lusso di coltivare piante meno produttive che tutelano l’ambiente, se la gente è disposta a pagare per questo. Un sistema simile funziona per Rosmann, che riceve un piccolo sussidio dallo Stato grazie a un programma per la tutela dell’ambiente, e vende i suoi prodotti biologici a prezzi più elevati.
Ma siamo pronti a pagare di più? I metodi di Rosmann potrebbero davvero nutrire il paese più popoloso del mondo? Quando lo chiedo a Zhu Zhaoliang, all’Istituto di Agronomia di Nanchino, risponde con una risata. «L’agricoltura biologica non è la soluzione giusta per la Cina», dice categorico.
Eppure c’è spazio per un compromesso – raccolti eccellenti e minore inquinamento da azoto – e la strada ci viene indicata da alcuni dei campi più studiati del mondo: quelli, di un ettaro ciascuno, della Kellogg Biological Station della Michigan State University. Da vent’anni questi campi vengono coltivati sempre con lo stesso ritmo a mais, soia e frumento, e ciò consente un raffronto diretto di quattro diversi metodi agricoli, da quello tradizionale al biologico. Tutto quello che entra o esce dai campi viene misurato con attenzione: pioggia, fertilizzanti, ossidi d’azoto, l’acqua che filtra nelle falde e, ovviamente, i raccolti.
Phil Robertson, lo studioso che ha contribuito ad avviare questo esperimento a lungo termine, ha raccolto alcuni dati nuovi e «sorprendenti». Negli ultimi 11 anni, i campi coltivati nel Michigan con i sistemi standard hanno rilasciato 680 chili di azoto per ettaro nelle falde dello Stato. «Ciò significa che circa la metà del fertilizzante aggiunto viene poi perso», spiega Robertson. La perdita è minore di quanto non accada in Cina; tuttavia, se questo dato viene moltiplicato per i milioni di ettari coltivati negli USA, basta per avere falde inquinate, il Mississippi ricco di nutrienti e un’enorme zona morta nel Golfo del Messico.
I campi di Robertson, coltivati senza fertilizzanti o concimi commerciali, hanno perso solo un terzo dell’azoto, ma producono il 20 per cento di cereali in meno. È interessante notare invece che i campi in cui vengono usati piccoli quantitativi di fertilizzanti e una coltura di copertura invernale hanno offerto i risultati migliori: i raccolti erano abbondanti come quelli dei campi tradizionali, ma il dilavamento dell’azoto era molto ridotto, in percentuali più vicine a quelle dei campi biologici. Secondo lo scienziato, se gli agricoltori americani riuscissero a ridurre le perdite di azoto raggiungendo più o meno questo livello, le zone umide e i piccoli torrenti ripristinati potrebbero fare il resto. Come in Cina, però, molti agricoltori sono restii al cambiamento. Quando c’è in gioco il sostentamento di una famiglia, usare troppo fertilizzante sembra la scelta più sicura.
IN AFRICA, porsi il dilemma di usare o meno troppo fertilizzante è un lusso. Gli agricoltori africani ne usano quantità veramente modeste, in media solo sette chili per ettaro; anche il concime animale o le leguminose scarseggiano.
Molti contadini sono caduti in una sorta di circolo vizioso: temendo la fame, si dedicano a colture come il riso o il mais che apportano molte calorie ma tendono a privare il suolo di nutrienti. I terreni impoveriti producono raccolti sempre più esigui, che non consentono ai contadini di acquistare fertilizzanti. E poiché la domanda di fertilizzanti è esigua, nessuno li produce localmente, quindi vengono importati e sono cari.
Secondo molti esperti, il suolo africano è prossimo all’esaurimento. Le riserve naturali di fertilità – i nutrienti presenti nelle radici e nelle foglie decomposte nei secoli passati – sono sempre più scarse perché l’agricoltura sottrae sempre più azoto, fosforo e potassio di quanto non ne immetta, e il suolo è sempre meno capace di nutrire la gente che da esso dipende: secondo la Banca Mondiale questo è “lo scenario di un possibile disastro nel lungo periodo”.
La produzione media di cereali nell’Africa sub-sahariana si attesta intorno alla tonnellata per ettaro, un quinto della media cinese. L’accordo è quasi unanime: i contadini africani hanno bisogno di più azoto per incrementare i raccolti e migliorare la loro vita. Ma quando si discute del modo in cui debbano procurarselo, iniziano le polemiche.
Per alcuni, come Jeffrey Sachs dell’Earth Institute della Columbia University, la crescente domanda di prodotti agricoli deve essere soddisfatta anche con l’uso dei fertilizzanti commerciali e visto che i contadini africani non li possono comprare, vanno forniti dalle nazioni più ricche. Il Millennium Villages Project di Sachs distribuisce sacchi di sementi ibride e fertilizzanti in 80 villaggi di dieci paesi africani. Secondo i suoi dati il progetto sta avendo un grande impatto: nei villaggi di Tanzania, Kenya e Malawi la produzione di cereali è raddoppiata quasi subito.
Nel 2006 il governo del Malawi iniziò a distribuire fertilizzanti a poco prezzo a metà dei contadini del paese. La produzione di mais raddoppiò, anche se gran parte del merito fu delle piogge abbondanti. Le iniziative di questo genere, tuttavia, comportano una serie di problemi. Negli anni Settanta e Ottanta in molti paesi africani si tentò la strada dei sussidi per acquistare i fertilizzanti, che fu poi abbandonata, perché erano comunque prodotti costosi e il sistema era corrotto. Il programma di sovvenzionamenti del Malawi è già in crisi: il governo sta esaurendo i fondi.
«L’Africa non può permettersi quantitativi ingenti di fertilizzanti», dice Sieglinde Snapp della Michigan State University. Un maggior uso di piante nitrificanti è un approccio più sostenibile, spiega. In Malawi, centinaia di famiglie hanno iniziato a coltivare caiano e arachidi, che aggiungono azoto al terreno, sostituendo in parte il mais. Il tutto nell’ambito di un esperimento avviato dieci anni fa da ospedali, contadini e studiosi.
I legumi hanno reso il suolo più fertile, e quindi il raccolto dell’anno successivo è stato più abbondante, un buon motivo per destinare meno terra alla coltivazione del mais. «Meno mais significa più mais», riassume Snapp. E a questo si è aggiunto il raccolto di caiano che ha fornito pasti più nutrienti e ricchi di proteine. «Ma non è accaduto in un giorno», precisa Snapp. «È stato necessario imparare a usare le leguminose. Un lavoro durato vent’anni che ha coinvolto anche un ospedale locale. La gente ha cambiato la propria dieta».
L’approccio di Snapp, ovvero che in futuro serviranno competenze e pazienza per acquisire e conservare l’azoto, trova eco nelle parole di molte persone impegnate in quella che ormai è una battaglia globale. Quando ho chiesto a Zhu Zhaoliang di cosa abbia più bisogno l’agricoltura cinese, ha risposto: «Crescita», cioè fattorie più grandi e gestite meglio. In Iowa, Ron Rosmann spiega che l’agricoltura senza azoto aggiunto «richiede una gestione più attenta e maggiore cura per i particolari, ed è più faticosa. Bisogna essere un po’ fanatici».
Un secolo fa, quando il chimico Fritz Haber scoprì come catturare l’azoto nell’aria, i fertilizzanti sintetici sembravano uno strumento facile per evitare raccolti scarsi, in quanto fornivano in quantità illimitate la sostanza nutriente più importante per l’agricoltura. Oggi però ci rendiamo conto dei problemi che pone il ricorso eccessivo all’azoto. Stavolta le innovazioni che possono salvare noi e il pianeta in cui viviamo potrebbero non provenire da un laboratorio di chimica, ma dagli agricoltori e dai campi coltivati in ogni angolo del mondo.