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 2013  giugno 12 Mercoledì calendario

UN VENTENNE E IL NAZISMO TRAVAGLI DEL GIOVANE KENNEDY - È

prossimo all’uscita in Germania il libro di Oliver Lubrich: «John Kennedy. Fra i tedeschi. Diari e lettere 1937-1945». Kennedy aveva vent’anni nel 1937, quando fece un lungo viaggio in Europa. Rimase talmente colpito da Hitler, che arrivò a definirlo nel suo diario: uno che ha la stoffa della leggenda. Non solo, ma successivamente, nel 1945, si spinse ancora più in là: Hitler, dall’odio che adesso lo circonda, fra alcuni anni emergerà come una delle personalità più importanti che siano mai vissute. Dopo una affermazione del genere, come poté J. F. Kennedy diventare un mito dell’America liberal?
Attilio Lucchini
attiliolucchini@hotmail.it
Caro Lucchini, non so se esistano altri documenti da cui risultino le idee politiche del giovane Kennedy prima del suo debutto nelle file del partito democratico. Ma le sue riflessioni sul regime nazista (peraltro molto ambigue) non mi sorprendono. Per comprendere che cosa passasse allora per la testa di un ventenne nato alla fine della Grande guerra, occorre ricordare quali esperienze, dirette e indirette, avessero segnato il periodo dell’adolescenza e della prima gioventù. Nella famiglia e nella scuola aveva sentito parlare della Grande guerra, aveva ascoltato i racconti di coloro che ne erano tornati, aveva appreso che la Russia era stata teatro di due rivoluzioni nel 1917 e che moti comunisti, un anno dopo, erano esplosi in Germania, Austria, Ungheria, persino in Italia. Verso i dieci anni, da un’occhiata ai giornali, aveva appreso che la Borsa di New York era crollata, che le banche stavano chiudendo i battenti, che le strade e le piazze erano sempre più spesso piene di operai in sciopero, disoccupati in cerca di lavoro e lunghe file di fronte alle mense popolari.
Verso i quindici anni aveva assistito ad animate discussioni sul modo in cui il nuovo presidente americano, Franklin D. Roosevelt, si proponeva di risollevare il Paese dalla lunga recessione in cui stava precipitando. Era un cripto-socialista? Era l’uomo che avrebbe salvato il capitalismo modificandone le regole? All’università il giovane diciottenne si sarebbe lasciato coinvolgere in appassionate discussioni politiche sulla forma ideale dello Stato moderno. La democrazia liberale era ancora adatta a una società che sarebbe stata dominata dalle masse? Era possibile trarre qualche insegnamento dall’esperienza sovietica in Russia, da quella fascista in Italia e da quella nazista in Germania?
Negli anni Trenta, caro Lucchini, non vi è giovane intelligente che non sia alla ricerca di una strada da percorrere, di una «verità» in cui credere. Vi furono quelli che andarono a Norimberga per assistere ai fasti del nazismo e altri che andarono in Spagna per combattere contro Franco nelle file delle Brigate internazionali. Vi furono i giovani universitari di Cambridge che si lasciarono sedurre dalla Russia di Stalin e quelli del Guf che partirono volontari per la conquista dell’Etiopia. Mai come negli anni Trenta i giovani furono bombardati da messaggi tanto diversi e chiamati a fare scelte tanto difficili. Fu la guerra, in molti casi, che scelse la loro vita. Kennedy combatté nel Pacifico, comandò una piccola nave che venne speronata dai giapponesi, portò in salvo quelli fra i suoi compagni che erano sopravvissuti, meritò una medaglia al valore.
Sergio Romano