Danilo Taino, Corriere della Sera 12/06/2013, 12 giugno 2013
IL MONDO NARRATO DA DATI E STATISTICHE CHE CI CONFONDONO
Ieri mattina, un vecchio amico, un tempo militante di Lotta Continua, ricordava come negli Anni Settanta l’allora nuova sinistra avesse la fobia dei numeri. Dice che spesso si fermava a margine dei cortei e contava i cordoni «per avere la misura reale e non politica di quanti eravamo». Sempre, «da Sofri a Capanna passando per Rossanda nessuno mi credeva: rimuovevano e sparavano cifre». Ancora: «Quando Lotta Continua (il quotidiano) vendeva 4.500 copie e lo contestavo a Enrico Deaglio, lui mi rispondeva offeso che eravamo un giornale da 15-17 mila copie: io gli mostravo i dati e lui non ci credeva».
Ora, questo amico doveva essere considerato un rompiscatole, al tempo, uno che oggi sarebbe chiamato un whistleblower, un fischia-falli. Ma aveva ragione. E, quarant’anni dopo, segnala che il mondo si è rovesciato, i dati lo stanno conquistando e spodestano le ideologie.
Non che questo renda le cose più semplici. Da soli, i numeri non spiegano la realtà meglio di quanto facessero le ideologie del Novecento. Soprattutto se ci soffocano per quantità e rimangono indistinti, come se uno raccontasse la stessa storia dell’altro. Sempre ieri, a Roma, il Censis — un centro studi che di dati se ne intende — ha tenuto un incontro dal titolo «Di troppi dati si può morire». Il suo presidente Giuseppe De Rita e il direttore Giuseppe Roma hanno sottolineato l’inflazione di dati diffusi con ogni mezzo: «Misurazioni, rating, indicatori di agenzie internazionali che assurgono a notizie e rischiano di disorientare famiglie e imprese, più che aiutarle ad affrontare le difficoltà». E poi più di 400 sondaggi l’anno e la massa di numeri sui sistemi economico e sociale.
Il Censis, critico, nota che «nelle prime 22 settimane del 2013 l’Istat ha pubblicato 95 diverse indagini: una media di quattro indagini la settimana. Tra i primi sei mesi del 2010 e il primo semestre del 2013 la diffusione dei dati statistici dell’Istat è aumentata del 23%, in un’ottica di maggiore disponibilità di numeri per il vasto pubblico. Gli accessi al sito Istat per scaricare dati sono aumentati negli ultimi sette anni del 160%».
La febbre americana del dato e della statistica è insomma misurabile anche nella patria della cultura classica, dall’economia allo sport. Bene? Non necessariamente, commenta il Censis: «Più numeri, più informazioni, più opinioni. Ma quanti dati oggi vengono correttamente interpretati? Prevale la rincorsa a comunicare il dato per ottenere l’effetto annuncio. E, nonostante i tanti numeri diffusi per comprendere i diversi aspetti della crisi e aiutare a generare policy efficaci rispetto alle questioni che il Paese deve affrontare, nessuna delle misure adottate fino a oggi ha risolto o attenuato i problemi».
La critica, se rivolta all’Istituto nazionale di Statistica, è probabilmente ingenerosa: lo sforzo fatto negli anni recenti dall’Istat per produrre numeri buoni, utilizzabili per capire la realtà, l’ha messo al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica e ha ricevo riconoscimenti internazionali. La questione, però, è seria e riguarda chi questi dati li dovrebbe elaborare e usare per disegnare politiche e per verificarne poi l’attuazione e i risultati. Qui, nasce il problema dell’Italia.
Siamo in un mondo nel quale la massa di dati decide quasi tutto: la lotta al terrorismo (il caso del cosiddetto Datagate americano di questi giorni); la campagna elettorale di Barack Obama (fatta sulla base della conoscenza numerica minuta delle opinioni e delle abitudini di milioni di cittadini); le strategie produttive e commerciali delle maggiori aziende globali (il Big Data che permette di conoscere nel dettaglio i consumatori); le politiche economiche e sociali e i loro effetti (analizzate da centri di ricerca sempre più sofisticati) e mille altre cose fino, per dire, alla conduzione dei processi da parte di accusa e difesa (fondata su analisi di dati storici in quantità fino a poco tempo fa inimmaginabili).
Bene, in questo nuovo regno nel quale i dati sono sovrani, l’Italia ne fa un uso curioso. Come sottolinea il Censis, li lascia spesso a se stessi, nella confusione. Ma non perché i numeri siano troppi. Perché, soprattutto nella sfera pubblica, non sono usati per disegnare le politiche, cioè per affrontare i problemi. In genere si preferisce usarli per giustificare la politica, cioè decisioni già prese sulla base dei rapporti di potere.
È che in fatto di statistica, quarant’anni dopo portiamo ancora l’eskimo.
Danilo Taino