Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  giugno 12 Mercoledì calendario

IDENTITA’ E (MOLTO) DENARO, EX AN TENTATI DALLA RIFONDAZIONE —

Non è ancora una reunion, come quella dei Queen orfani di Freddie Mercury, ma è l’inizio di una prova di dialogo. Appuntamento a Roma, il prossimo 6 luglio, probabilmente in un albergo: gli ex An si ritrovano. No, non è la rinascita del partito, dopo la catastrofica débâcle romana, con la sonora sconfitta di Gianni Alemanno. Ma è «la prima manifestazione pubblica, per valutare lo stato della destra», nella Capitale e non solo. Perché la batosta del Campidoglio, per chi viene dal Msi prima e da An dopo, ha assunto un valore altamente simbolico: «La fine di un’epoca, iniziata nel ’93 con la candidatura di Gianfranco Fini».
Il problema, adesso, è un altro: cosa fare? Da dove ripartire? Secondo Alemanno «c’è una roccia solida», data dallo «zoccolo duro», quei 360 mila romani che lo hanno votato nonostante tutto. Ma, di certo, per una classe politica che si proponeva anche come classe di governo, non è un granché. Ed ecco, allora, che negli incontri più o meno ufficiali, nei salotti o nei bar, c’è chi comincia a lanciare la proposta, a metà tra la suggestione e il «richiamo della foresta». Rimettere insieme un arcipelago che si è disperso in mille isolotti: un pezzo nel Pdl, un altro con Storace e La Destra, un altro ancora con Fratelli d’Italia. «Ma quattro iniziative senza successo non danno vita ad una di successo...», suggerisce un dirigente.
Eppure l’ipotesi circola: qualcuno la «sponsorizza», altri la bocciano. Dice Italo Bocchino, finiano, ex Fli: «I processi politici si definiscono con ciò che accade nel panorama nazionale». Sarebbe? «Inutile negare che ci sia un sommovimento. A sinistra per un verso, a destra per il recupero di un’identità». La reunion, lui, la vedrebbe di buon occhio: «Farebbe bene al sistema politico», ammette. Anche perché «si è chiuso un ciclo durato venti anni, vediamo se questo mondo può tornare insieme oppure andare avanti singolarmente». L’importante, sostiene Bocchino, «è che chi vuole favorire questo processo di riunione lo faccia tacendo all’esterno, così si facilita l’operazione...».
Il problema, oltre che ideale, è anche economico. La destra italiana è frazionata, sconfitta al Campidoglio, con una difficile «traversata nel deserto» da affrontare, ma ha un «gruzzolo» non indifferente: i soldi, e il patrimonio, della fondazione An. Organismo che conta circa 500 soci, con un comitato di gestione nel quale figurano gran parte di quelli che erano i «colonnelli»: dallo stesso Alemanno ad Altero Matteoli, da Maurizio Gasparri ad Ignazio La Russa (oggi con Fdi), dal finiano Donato Lamorte al presidente Franco Mugnai. Un board con le mani legate: non essendoci identità di vedute, ma anzi percorsi politici diversi, soldi e patrimonio restano lì, bloccati. Si parla di circa 80 milioni «liquidi», più altri 480 in proprietà, un «bottino» che è indivisibile e che — spiega uno dei soci fondatori della fondazione — «può essere usato solo per iniziative legate al futuro della destra».
Sarà difficile, comunque, ritrovare un’unità di vedute. Fratelli d’Italia già si sfila: «Non ho particolare passione per il nostalgismo. Siamo una forza moderna, andiamo avanti nel nostro percorso», sostiene Fabio Rampelli. Anche Andrea Augello, Pdl, è contrario: «Non ci sono seri indizi per un partito di destra, l’unica prospettiva che vedo è all’interno del centrodestra». Ma Pietrangelo Buttafuoco, giornalista, che quel mondo lo conosce bene, è lapidario: «Quel mondo è morto, ed è stata la realtà a distruggerli. Questa destra era impreparata alla gestione del potere, ed è andata via nel peggiore dei modi».
Ernesto Menicucci