Massimo Arcangeli, Il Messaggero 12/6/2013, 12 giugno 2013
LO STREGA AL MICROSCOPIO
Negli ultimi giorni sono rimbalzate le previsioni sulla probabile cinquina finale dello Strega, che si deciderà oggi. Come spesso avviene in questi casi, più che sul valore in sé delle dodici opere concorrenti, la discussione si è animata sul peso di scuderia, sulle telefonate agli amici, sull’influenza di presentatori. Proviamo a raddrizzare il tiro, per dare almeno un assaggio delle tecniche narrative e delle modalità di scrittura dei dodici finalisti.
Matteo Marchesini in Atti mancati opta per il realismo documentale, qua e là punteggiato dall’elemento locale o gergale. Racconta di un poligrafo trentatreenne alle prese con un romanzo di formazione più grande di lui; incancrenito in una solitudine che ha rinunciato all’esperienza, non riesce a sganciarlo dallo stadio dell’abbozzo. La realtà torna a impadronirsi della sua vita sospesa quando ricompare la donna che, cinque anni prima, l’ha lasciato senza mai spiegagli perché. La malattia di lei guarisce quella di lui, mentre il fortilizio dell’abdicazione al presente, sottoscritta dagli eccessi d’intelligenza di uno stile didascalico e metanarrativo, viene alla fine espugnato dall’ariete del dolore.
Il romanzo di Aldo Busi – che ha fatto davvero di tutto per farsi escludere – è detonante. La trama è mera appendice o escrescenza di un ego che oppone, alle scritture che delibano o ruminano, la ferocia del predatore: divora forme e sostanze per il puro gusto di poterle espellerle sdegnosamente. Se la potenza di fuoco dello stile stordisce, il fuoco vendicatore acceso dall’eretico per l’autodafé di un’intera civiltà annichilisce. Va un po’ meno bene a Matteo Cellini. Cate, io Imbocca a sua volta la via dell’espressionismo, ma il prodotto è bulimico; troppi i virtuosismi, troppi gli incantesimi, troppi i fuochi d’artificio e gli effetti speciali. Nel camaleontico Gaetano Cappelli la ricercatezza stilistica torna a recitare bene la sua parte: il tono è frizzante, la copertura retorica scintillante, il materiale lavorato talora incandescente. Tutto rotola un po’ rocambolescamente lungo la china della sottrazione ai loro legittimi proprietari di trame, stili, personaggi, situazioni. Una fiera di piccole e grandi mistificazioni, per smascherare l’arte.
Romana Petri in Figli dello stesso padre spinge sul pedale nostalgico. Se la trama è ordita dal ricordo di un padre che non c’è più, amato o sospirato dai due figli di diverso letto, la lingua risente del lessico familiare di un’infanzia e di un’adolescenza trascorse nei rari momenti di spensieratezza condivisa, quando Germano ed Emilio potevano approfittare ambedue della presenza del genitore. Giovani già maturi, quelli di Paolo Di Paolo, appartenenti alla generazione incarnata da uno straordinario intellettuale: Piero Gobetti, morto prematuramente a Parigi. Lo insegue per tutto il romanzo uno studente universitario che vive nel modo insicuro che sa, il solo che può. Il suo linguaggio, e i modi con cui lo mette alla prova, sono quelli incipienti di una gioventù creativa di là da venire.
Se Alessandra Fiori sceglie la biografia romanzata (l’ascesa, la conquista della vetta, il declino di un uomo politico lungo quasi mezzo secolo di storia repubblicana italiana) ma la prova è un po’ fiacca, tradita da una vocazione saggistica alla ricostruzione storica che rimpingua la serie infinita di tanti ibridi narrativi, nei dieci racconti microrealistici di Paolo Cognetti l’identità delle persone scompare dinanzi a incontri e processi, e all’ancoraggio a tempi e luoghi viene preferita l’aderenza alle cose.
TECNICISMI
Lorenzo Amurri, Alessandro Perissinotto, Simona Sparaco iniettano la pagina di tecnicismi e ambientalismi settoriali. Apnea è bifido. Il corpo di Lorenzo, per un incidente di sci, divorzia da sé: il giovane, dal torace in giù, non sente più niente. Le forme sembrano prenderne atto, tra fratture logiche, l’avvicendamento tra la mente per aria (incubi, pensieri) e i piedi per terra (la cruda realtà), l’alternanza tra il linguaggio impietrito della scienza medica e la lingua di un mondo che si muove senza posa. Le colpe dei padri è deterministico: esibisce una lingua premeditata, una narrazione geometrica, le vite allertate da piccoli campanelli d’allarme. Gli anni, i mesi, le ore che scandiscono le diverse vicende, passate e presenti, segnano il cammino dei personaggi della stessa pervasiva presenza dei numeri nel mondo reale. A innescare il racconto è il tema del doppio: l’esistenza di un presunto gemello dell’ingegnere protagonista. Nessuno sa di noi è la storia di una madre mai nata, di una relazione rinata. Un realismo stereoscopico, di precisione chirurgica, che incide facilmente il cuore di chi legge. Tra attenzione binoculare ai dettagli e distanziamento focale da grandangolo: la dose di linguaggio medico è abbondante, ma lo sguardo è cinematografico. Infine Walter Siti. Qui verità e finzione si scambiano di ruolo, con il lessico erotico e il gergo borsistico e finanziario che s’inseguono nel racconto, sporcandosi reciprocamente. L’autore accorda gli strumenti sotto gli occhi del lettore, con un doppio inizio abortito ma non troppo. L’esecuzione è una prova da maestro; un direttore d’orchestra partecipe, ma a rubargli la scena è la figura di Tommaso. Il vincitore annunciato fra i veleni del sospetto di inciucio, ma è il romanzo più bello. Mutazionista. Checché ne dica Busi.