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 2013  giugno 09 Domenica calendario

BIZZOSA, FOLLE, IMMAGINIFICA UNA BIENNALE CHE STUPISCE

Dovremo essere ricono­scenti a Massimiliano Gioni per la straordina­ria e dotta edizione della Biennale di Venezia che ha curato senza cedere alle lusinghe dell’arte e del mercato del nostro tempo. La sua mostra non intende docu­mentare tendenze e ricerche, ma ri­salire a una ossessione, una visione interiore che la modernità vuole esprimere a partire dalla sostituzio­ne della religione con la psicoanalisi, dell’anima con l’inconscio. E se i se­gni espressi dalla contemporaneità si possono far risalire, nella vulgata storiografica, a Ensor, a Van Gogh, a Munch, e, ancora, a Gauguin e a Ce­zanne, nella ricostruzione di Gioni il punto di partenza, sotto la volta Art Noveau di Galileo Chini nel Padiglio­ne Centrale ai Giardini, è esplicita­mente Carl Gustav Jung, con il Liber novus, o Libro rosso, un vero e pro­prio codice miniato concepito cen­t’anni fa, nel 1913, ed elaborato in 16 anni. Partendo da Jung (e non per esempio dai futuristi), il percorso arti­colatissimo di Gioni disegna una sto­ria «parallela», in cui entrano aliena­zione, alterità, follia.
Gioni classifica archetipi, «imma­gini primordiali», e propriamente, immagini prime, perché definisce storie infinite, a partire da esperienze del sentire e del vedere diverse per ognuno di noi. Per questo sorprende il Libro rosso di Jung, come un calei­doscopio di immagini e colori. È una partenza evocativa e formidabile, che determinerà, sulla falsariga del Palazzo Enciclopedico di Marino Au­riti, un percorso tanto rigoroso quan­to capriccioso. Si può presumere, in­fatti, che un’enciclopedia, nella sua pretesa universale e totalitaria, sia per molte parti simile a un’altra in uno spirito onnivoro di conoscenza. D’altra parte, con finezza, Gioni po­ne a­epigrafe del suo saggio un pensie­ro di Platone evidenziato da Athana­sius Kircher nell’ Ars Magna Sciendi: «Niente è più dolce che sapere tutto».
Non si potrebbe dare miglior viati­co, ma ilrisultato è singolare. Nessu­na enciclopedia è uguale a un’altra, e il percorso di Gioni non è né oggetti­vo né prevedibile. Soltanto il suo, distinto e irripetibile. Così personale, pur nella pretesa universale, da esse­re faticosamente memorizzabile. Gioni procede per accumulo, per affi­nità di immagini, ma seleziona se­condo un istinto o un desiderio irri­producibili. Soltanto così si spiega la incomprensibile assenza di Wiliam Blake, di Amos Nattini, di Strind­berg, così come del più affine a Gioni per metodo e visione, e per di più vi­vente, che è Luigi Serafini, con il suo Codex Seraphinianus. Non so se escluso o dimenticato, irragionevol­mente. Ma così pertinente da aver de­terminato un sussulto della memo­ria in Gioni, quando, vedendomi entrare nel suo Padiglione, mi ha prean­nunciato: «Ti piacerà, a te che piace il Codex Seraphinianus». Evidentemente a lui così connaturato e fami­liare, da non aver ritenuto necessario esporlo.
Che questa visione totale, ma inevi­tabilmente parziale e di parte, lo av­verte lo stesso Gioni annunciando: «Il Palazzo Enciclopedico è una mo­stra sulla conoscenza, sul desiderio di vedere e sapere tutto, e sul punto in cui questo desiderio si trasforma in ossessione e paranoia. Pertanto è an­che una mostra sull’impossibilità di sapere, sul fallimento di una cono­scenza totale e sulla malinconia che ci travolge di fronte all’evidente con­statazione che i nostri sforzi saranno inutili». Per questo ognuno di noi, ap­plicandosi alle sue conoscenze, co­struirebbe un diverso Palazzo Enciclopedico con alcune stanze comuni e moltissime diverse da quelle sele­zionate da Gioni. Non potranno così mancare i disegni di Rudolfh Steiner o i simboli geometrici di Hilma af Klint, o le composizioni simboliche sul mondo spirituale di Augustin Le­sage. Ma Gioni vuole trascinarci nel­la spirale delle sue visioni e dei suoi desideri. Così riesuma un originale zodiaco di Aleister Crowley i cui riti furono celebrati anche in una casa di Cefalù, luogo di spiriti e apparizioni. Numerose anche le curiosità, come le 387 case di Peter Fritz recuperate nella spazzatura da Oliver Croy e Oli­ver Elser, o gli animali intagliati di Le­vi Fischer Ames. Ci si può chiedere: perché questi e non gli animali di Feli­ce Tosalli, più sofisticati?
Che cosa muove la selezione di Gio­ni? Certamente inevitabili le pietre parlanti e vive di Roger Caillois, dalle forme imprevedibili nelle materie preziose. Curiosità senza limiti, ricer­cate anche in artisti celebrati come Duane Hanson e John DeAndrea. In qualche modo affini, nella dimensio­ne visionaria, sono Friedrich Schörder-Sonnenstern e Hans Schärer. Ma vere e proprie scoperte sono i me­ravigliosi Thierry De Cordier, con i suoi mari e le sue montagne bitumi­nosi, Ellen Altfest, con la sua rarefazione e esecuzione quasi miniaturi­stica di teste e corpi umani.
Gioni vuole stupirci e continua con una commovente proposta di Ka­rol Rama, con alcuni pastelli floreali di Anna Zenankova, con le fotografie di centinaia di acconciature di J. D’Okhai Ojeikere, riprese da model­le in gran parte di spalle. Vere scoper­te, in un mare magnum di sorpren­denti novità, sono le terrecotte comi­che di Peter Fischli e David Weiss, del genere I genitori di Albert Einstein in riposo postcoitale dopo aver appena concepito il genio, le visioni stregate di Dorothea Tanning, le sculture mo­numentali e potentemente grezze di Hans Josephsohn. Ogni scelta perti­nente e motivata. Ogni cosa al posto giusto. Con grandissima eleganza di allestimento, e alternando incursioni imprevedibili, come una serie di bambini con le madri mascherate di Linda Fregni Nagler, con una selezione di opere di Enrico Baj.
Gioni ci porta dentro il suo sogno, popolato d’immagini soltanto sue, mostrandoci il necessario superfluo e il superfluo necessario; e in un caso almeno ci offre una gioia purissima: una serie di terrecotte di Shinichi Sawada, un artista giovanissimo, na­to nel 1987 a Otsu, in Giappone, affet­to da una grave forma di autismo. Sawada popola il suo studio, in cima a una montagna, di draghi, demoni, maschere ululanti, come piccoli ani­mali preistorici, con spuntoni di cre­ta. Non si contano le novità tra gli artisti scomparsi e quelli viventi, inter­pretando perfettamente il pensiero di Hans Belting: «In nessun altro am­bito meglio che in quello del sogno l’essere umano ci appare come il luo­go naturale delle immagini».
Un percorso iniziatico, contagio­so, competitivo. Dureranno a lungo, nella memoria, le immagini scelte, per questa immaginifica esposizio­ne, da Massimiliano Gioni. E che non sembri una Biennale, poco importa.