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 2013  giugno 10 Lunedì calendario

EXPORT PIÙ FORTE DOPO LA PRIMAVERA ARABA

Se scarseggiano le riserve di valuta estera, non si riescono a incassare i pagamenti per gli ordini delle merci. Se gli scioperi sono continui, la produzione si ferma e non vale la pena portare nuovi investimenti. E se viene meno l’interlocutore, non si sa a chi chiedere di onorare il contratto interrotto. Nell’ordine: Egitto, Tunisia e Libia. Tre problemi per tre Paesi diversi, ma accomunati da un unico destino: su di loro ha soffiato forte il vento della primavera araba, che ha scardinato tutto. E che per certi versi non ha ancora smesso di soffiare.
Le proteste che in questi giorni infiammano la Turchia hanno richiamato alla mente di molti le immagini delle aziende italiane bloccate in Tunisia, o i racconti dei connazionali rimpatriati in fretta e furia della Libia. Non sembra questo il caso, per ora, a Istanbul, assicurano gli analisti. Ma come è andata a finire, in Nordafrica? La non raggiunta stabilità politica di questi Paesi è sotto gli occhi di tutti. Dal punto di vista del business, però, si sente parlare molto meno. Che ne è degli affari italiani, a due anni e mezzo dalla rivoluzione?
Per chi esporta, le notizie sono buone: gli ordinativi da Libia, Egitto e Tunisia a fine anno supereranno i livelli del 2010. La primavera insomma è stata digerita, l’Italia oggi esporta più di quanto non faceva prima della rivoluzione.
Diverso è il caso di chi ha investimenti produttivi in loco. Partiamo dalla Libia, a oggi il Paese più difficile. A poco più di un anno e mezzo dalla morte di Gheddafi, fonti diplomatiche fanno sapere che è ripartito solo il 2% dei contratti posti in essere con le aziende straniere quando gli scontri sono iniziati. Questo però non significa che i contractor italiani debbano perdere le speranze: il governo di Tripoli si sta impegnando nella riattivazione di questi contratti - il Paese, del resto, ha bisogno vitale di nuove opere - ed è lecito pensare che la quasi totalità verrà ripresa dal punto dove si era interrotta. I soldi ci sono: la produzione di petrolio in Libia è tornata ai ritmi pre-rivoluzione e a febbraio il Congresso ha finalmente approvato il budget di spesa 2013 (39 miliardi di euro), manca soltanto la suddivisione per ministero. «Il problema semmai per le aziende è quello di individuare l’interlocutore giusto – spiega Giulio Dal Magro, chief economist di Sace –. Le istituzioni libiche oggi sono deboli e hanno poco potere decisionale. Chi si assume la responsabilità di dire sì o no?». Inoltre proprio giovedì scorso è entrata in vigore la Political Isolation Law, che rimuove dagli incarichi pubblici chi era compromesso col regime: se il colpo di spugna sarà troppo profondo e colpirà anche il secondo e il terzo livello dei vertici amministrativi, di fatto verranno azzerate le competenze dirigenziali del Paese, con grande danno per la ripartenza economica.
Se in Libia le imprese italiane che avevano investito sono tornate quasi tutte, quanto meno con un ufficio di rappresentanza, in Tunisia di fatto non se ne sono mai andate. Si tratta di circa 700 aziende: impiegano oltre 55mila persone e, in buona parte, beneficiano della legge sugli investimenti off-shore, poiché riesportano buona parte della produzione. Per loro, il tema più spinoso sono gli scioperi, che non sono più solo politici ma che hanno imboccato con chiarezza la via della rivendicazione salariale. Nelle ultime settimane, ricorda l’ambasciata italiana a Tunisi, si sono verificati parecchi sit-in presso alcune nostre aziende, che ne hanno di fatto bloccato l’attività; in qualche caso si è anche temuto per la sicurezza di persone e cose.
Le agitazioni del mondo operaio non sono le sole a intimidire l’interesse delle imprese straniere verso la Tunisia, che infatti ha visto calare del 10,6% gli investimenti esteri nel primo trimestre del 2013. Le entrate derivanti dal turismo - fino alla Rivoluzione dei gelsomini, una delle industrie più floride e promettenti del Paese - sono drasticamente diminuite, con punte del 33% nell’anno dello scoppio della rivolta. E questo influisce sulla capacità di pagamenti.
Se però c’è un Paese, in Nordafrica, dove la scarsità di riserve in valuta estera sta prendendo una piega preoccupante, quello è l’Egitto. Lo scorso aprile la Banca centrale del Cairo si è vista costretta a vendere dollari per 600 milioni - un ammontare 15 volte superiore a quello solitamente messo all’asta in una volta sola - agli istituti di credito locali, in modo che questi potessero soddisfare le richieste di valuta pregiata da parte delle imprese egiziane per saldare gli ordini internazionali già fatti. «Lo stallo nei negoziati con il Fondo monetario – spiega Dal Magro di Sace – blocca gli aiuti internazionali, con effetti a cascata sul deficit pubblico e le partite correnti». Le imprese italiane che esportano in Egitto vedono così allungarsi i tempi del saldo degli ordini, e qualcuna è costretta a ricorrere a strumenti assicurativi ai quali quasi mai si ricorreva sotto il regime di Mubarak. Un peccato, perché l’Egitto è una delle realtà più popolose e promettenti dell’area, e perché i consumi del Paese stanno aumentando: nel corso dell’anno fiscale 2011/12 (dati African Development Bank) la spesa per salari e stipendi pubblici è aumentata del 29%.