Roberto Brunelli, l’Unità 11/6/2013, 11 giugno 2013
LA RISPOSTA È ANCORA NEL VENTO
Quanti mondi si spalancano davanti a noi grazie a una canzone? Quante strade dobbiamo percorrere per entrare nel cuore di un mistero? E quante orecchie dobbiamo avere per capire fino in fondo quello che abbiamo intuito?
Sì, perché raccontare Blowin’ In The Wind non è solo raccontare la vita di una canzone che quest’anno compie cinquant’anni: vuol dire entrare nel vortice della storia e delle storie, avventurarsi in percorsi inattesi, cercare di indagare i segreti e i paradossi di un decennio, i sessanta, che non sono mai finiti, e di un uomo che ha cambiato i destini e l’anima della cultura popolare.
È un viaggio che parte da lontano. Voi avete di fronte il «menestrello» Bob Dylan, il vate del folk, quello che incarnò in quattro accordi e nel soffio di un’armonica il senso di quell’epoca, potete figurarvi il ragazzo ebreo che da solo con la sua chitarra canta sul piccolo parco di un locale del Greenwich Village e sapete che Blowin’ In The Wind è stata una specie di epifania del Novecento. Ma è solo una parte della storia.
Quell’altra inizia nel 1867, quando un gruppo di soldati afroamericani, arruolati dall’esercito nordista nella grande guerra civile che avrebbe messo fino allo schiavismo, intonava di notte intorno al fuoco una canzone che non era proprio un gospel, ma che da lì partiva per gridare la propria liberazione. Quel pezzo era No More Action Block, che vuol dire «mai più pietre dell’asta»: mai più uomini messi ai ceppi, mai più venduti come bestiame da soma.
Ebbene, quella canzone è l’origine di Blowin’ In The Wind, la fonte a cui il giovane Dylan s’abbeverò, ma anche il cuore pulsante da cui parte un filo rosso intricatissimo.
Che arriva al 1963, e da qui riparte, quando esplode la leggenda di Bob Dylan, quando ha il suo apice il movimento dei diritti civili che cambierà l’anima degli Stati Uniti, quando con la rivoluzione dei suoni che fu la tempesta perfetta dei Sixties, il mondo scopre di poter avere una nuova consapevolezza.
Questa «storia-mondo» ce la narra oggi Alberto Crespi in un libro che rischia di essere uno dei più bei libri dylaniani che ci sia capitato di leggere (e dire che ce ne sono davvero parecchi…), ossia “Quante strade – Bob Dylan e il mezzo secolo di Blowin’ In The Wind” (Arcana, 230 pagine, euro 18.50): perché Crespi, critico cinematografico con la «passionaccia» per la musica, ha evitato tutte le trappole classiche del caso, tuffandosi a capofitto, appunto, nel vortice della storia. Intrecciando, cioè, musica, cronaca, aneddotica, critica musicale e letteraria, sociologia e passioni non solo dell’epoca in cui Blowin’ in the wind fu scritta, ma anche di tutto quel che sta sopra, sotto, prima e dopo quell’epoca: il razzismo degli Stati del Sud, tanto cinema, i colleghi (commovente il capitolo dei rapporti tra Dylan e Neil Young), le ascendenze impreviste (da Fellini a Brecht), sin anche un improbabile viaggio del nostro nella Georgia sovietica (anno domini 1985), volando con agilità tra alto e basso, sconfinando nel laterale e ripiombando, quando meno te l’aspetti, al centro del racconto.
Che comprende, ovviamente, le migliaia di cover che vennero fatte della canzone: in primis quelle di Stevie Wonder, Joan Baez, Marlene Dietrich, Elvis Presley, Duke Ellington, Odetta, persino gli imberbi Bee Gees e Luigi Tenco.
A questo proposito, i brividi li fa venire l’intervista a Furio Colombo, che di questo giornale è stato direttore e che il giovane Bob l’ha conosciuto davvero: siamo al Gerde’s Folk City, il locale del Village dove Dylan si sta facendo le ossa, e lì Furio sente per la prima volta Blowin’ InThe Wind. Subito si rende conto che quella non è una canzone «normale», ma forse il vagito di un nuovo mondo. Allora corre nel locale accanto, il Bitter End, dove sa che troverà Mary Travers (ebbene sì, la Mary del trio Peter, Paul&Mary). La trascina, letteralmente, al Gerde’s: ed è una folgorazione. Il resto della storia è nota: Peter, Paul & Mary incidono Blowin’, e la loro versione diventa popolarissima, ben prima di quella del suo stesso autore, dando via alla slavina Dylan e, a catena, alle tante slavine culturali e musicali che muteranno nel profondo l’anima dell’Occidente.
CROCEVIA DELL’ANIMA
Strepitosamente documentato, il libro di Crespi è anche una sequenza di crocevia dell’anima: Hendrix, Curtis Mayfield, Beatles, Springsteen, Baudelaire, Sam Peckinpah, Steve Jobs, Johnny Cash… ma anche Barack Obama e persino due papi (Wojtyla e Ratzinger), che intorno a Dylan ebbero modo di sviluppare una specie di disputa teologica. Si fanno spesso scoperte sorprendenti, in questo viaggio: per esempio, lo sapevate che il film Forrest Gump non è altro che una trasfigurazione di Blowin’ In The Wind?
Epperò la questione intorno a cui ruota il libro è un’altra: il rapporto profondo di Dylan, oltreché con apocalittiche immagini bibliche, con la cultura afroamericana. Con il blues delle origini, certo, con il gospel, con il soul, ma anche con la poetica di quel mondo (del papà di tutti i bluesmen Robert Johnson a sorpresa Dylan dirà d’aver tratto soprattutto ispirazione dai testi). Il fatto è che per il giovane Bob la storia degli afroamericani, in quanto intreccio di schiavitù e liberazione, è la metafora potente di tutta la storia umana: la cosa straordinaria è come sia riuscito, lui che era poco più di un ragazzo, a sintetizzare in pochi versi l’eco profonda di quella storia, tanto da suonare «universale» a chiunque se la trovasse di fronte.
Lo capì al volo Mary Travers quella sera del ’63 al Village e l’intuivano i milioni che l’hanno cantata negli ultimi cinquant’anni: ”Blowin’ InThe Wind” non è solo una canzone.E’ un mondo.