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 2013  giugno 11 Martedì calendario

DA BRIGANTE D’ALTRI TEMPI A «BOSS» DELLA COCAINA PERCHE’ NON ACCETTAVA DI FINIRE NELL’ANONIMATO —

Quando fu catturato, nel 1968, davanti alla questura di Nuoro c’era una folla di ragazzi che avevano marinato la scuola. Accorsi non per ringraziare i poliziotti; applausi e cartelli delle studentesse tutti per lui — «Grazianeddu i love you» — che aveva allora 26 anni e fama di ultimo brigante d’altri tempi che prendeva ai ricchi (nel senso proprio: li rapiva) ma rispettava poveri, donne e bambini. A Marcellino Petretto, 7 anni, portato via col padre e liberato poche ore dopo, mise in mano una banconota da mille lire: «Ecco, sono per il gelato. Tranquillo, al tuo babbo non farò male». Quel mito non esiste più. Graziano Mesina ha da ieri un altro marchio: boss della droga. Davanti alla caserma dei carabinieri passanti rari e indifferenti, pochi lo hanno riconosciuto.
Se c’è una cosa che l’ormai fu «re del Supramonte» non ha mai tollerato è scivolare nell’anonimato. Vita esagerata: 71 anni, più di 40 trascorsi nelle celle semibuie di 18 diverse prigioni, 9 anni fra arresti domiciliari e libertà vigilata, 5 di latitanza spericolata. Rimangono i 17 della giovinezza, ma anche allora... Alle elementari «ho lanciato sassi al maestro — raccontò — era troppo severo con i miei compagni». La scuola non faceva per lui, fu mandato a fare il servo pastore e conobbe da bambino fra pascoli e pietraie, penultimo di 11 fratelli, i silenzi dei luoghi e delle persone. La Barbagia era battuta da Giovanni Battista Liandru e Pasquale Tandeddu, fuorilegge spietati, e scorreva il sangue di faide senza fine.
«Ho sempre avuto un senso spiccato della giustizia e dell’ingiustizia», così a Mesina piaceva spiegare il suo essere stato brigante/balente. Un codice barbaricino tutto suo. Tre fratelli erano accusati «innocenti» di omicidio? Uno di loro ucciso? «In un bar c’era l’uomo che l’aveva ammazzato. Che dovevo fare? Sono entrato e ho sparato». Poco più che ventenne, su Grazianeddu una pioggia di condanne: 16 anni, poi 24, 6 e ancora 8 anni. Cumulate nell’ergastolo. E 21 tentativi di evasione, 9 riusciti. Clamorosi: a Sassari, 1966, scalata al carcere, un muro di 8 metri, balzo sulla strada, altri 12 metri. «Un taxi preso al volo e arrivederci», due anni sul Supramonte. A Lecce, 1976, fuga in massa con camorristi e terroristi. Romantici: da Novara. «Mi avevano promesso 5 giorni, me ne hanno dato 1. Troppo poco per stare con Valeria... E allora mi sono preso quel che mi avevano promesso». Il mito è stato poi adeguatamente alimentato. Spavalderie. «Ero il latitante più ricercato d’Italia ma andavo alle partite del Cagliari nell’anno dello scudetto. Sono entrato allo stadio, sempre travestito, anche da donna». Sussulti d’orgoglio: «La grazia? Non la chiederò mai. Con 40 anni di carcere credo di aver pagato tutto il mio debito con la giustizia». Invece, infine, la chiese e la ottenne nel 2004. «Ho chiuso e da oggi — assicurò con la valigia in mano all’uscita dal carcere di Voghera — sono un altro uomo».
Da ultimo dei briganti d’altri tempi a boss della droga. Come è potuto accadere? Grazianeddu diceva, sicuro: «Non cambierò mai». È però cambiata la Barbagia. Ritornando a Orgosolo si è accorto che il Supramonte non era più la montagna e i boschi che aveva vissuto da servo pastore né il rifugio sicuro del bandito irridente che si prendeva gioco di carabinieri e polizia e al passaggio dell’elicottero con a bordo il presidente della Repubblica (allora Giuseppe Saragat) maramaldeggiava: «Avrei potuto abbatterlo con il mio mitragliatore pesante». La Barbagia è sempre meno terra di balentes fieri e abili nelle prodezze a cavallo e sempre più percorsa da giovani al volante di giganteschi fuoristrada, considerati qui forse più che altrove simboli vincenti del nuovo. Mesina c’è ritornato; aveva addosso 40 anni di prigione, forse credeva di ritrovare il suo mondo. Si è fatto la Porsche Cayenne, uno dei più costosi e vistosi fuoristrada, lui che un’auto non l’aveva mai posseduta né aveva mai preso la patente. Intorno ciminiere spente, sogni d’industria svaniti, fuga dalle campagne, giovani senza lavoro, rumeni a far da servi pastori, droga negli ovili.
Disse che avrebbe chiuso col passato facendo la «guida» per portare turisti in Barbagia; e per meglio utilizzare il «marchio» doc del brigante/balente, Mesina aveva cercato soci in Veneto e messo su persino un’agenzia che proponeva inclusive tour, escursione sui luoghi della latitanza del re del Supramonte e cena con maialino compresa. Il «progetto» di Graziano Mesina — è scritto nell’ordinanza del giudice che lo ha fatto arrestare — era solo un paravento. «Ho sempre odiato la droga» reagì con sdegno all’accusa rimbalzata al processo per il rapimento di Farouk Kassam (Mesina sostenne di aver fatto liberare il ragazzo, ma un amico del padre testimoniò: «Propose di pagare parte del riscatto con stupefacenti»). Sempre meno brigante, e sempre più boss, trattava con cosche calabresi e trafficanti albanesi mentre la Cayenne imbottita di microspie correva per la Sardegna carica di cocaina e marijuana.
Alberto Pinna