Danilo Taino, Corriere della Sera 11/06/2013, 11 giugno 2013
«NON ASPETTIAMO L’UE, IL FUTURO RICOMINCIA A MILANO»
Il bello dell’intervistare Gianfelice Rocca — eletto ieri presidente dell’Assolombarda — è che non è mai scontato, a ogni snodo del discorso prende la strada che la grandissima maggioranza delle figure pubbliche italiane percorrerebbe con orrore, con la paura di essere fuori dalla linea condivisa dai più. E non sta sul generico, va alle radici. Mezza Italia discute di come stare in Europa, di cosa pretendere da Bruxelles e Berlino, per esempio: Rocca pensa sia uno show laterale.
«Finché siamo in Europa possiamo avere alleggerimenti del rigore — dice —. Ma i nostri problemi non si risolvono a Bruxelles. E’ tutto nelle nostre mani: l’illusione del vincolo esterno, che ci fosse qualcuno a guidarci da fuori, va avanti da 30 anni e ci ha portati qua. Io sono per il vincolo interno. Il servilismo che è cresciuto in Italia, fosse verso lo Stato o verso il podestà straniero, ha delegittimato la classe dirigente e quella politica. Dobbiamo prendere in mano il nostro destino, cercare il nostro spazio vitale, altrimenti sarà l’asfissia».
La cosa buona è che il nuovo leader degli industriali milanesi (e delle provincie di Monza Brianza e Lodi, e per certi versi dell’intera Lombardia) ha anche un programma non ovvio, verrebbe da dire nuovo, per cercare questo spazio vitale. Dice che lo metterà in atto «con una squadra fortissima» e di essere convinto che una svolta in Italia ci sarà, se ci sarà, solo partendo da Milano.
Rocca cita una battuta famosa di Warren Buffett, il grande investitore americano: «Quando la marea scende, si vede chi nuotava nudo». Bene, l’Italia (come l’Europa) nuotava nuda fino alla crisi del 2008. «Abbiamo avuto vent’anni di crescita durante la quale il Prodotto del mondo è praticamente raddoppiato — considera — Ciò stirava tutte le rughe, come su un palloncino ben gonfiato. E’ stato un periodo che ha rimandato la presa di coscienza di ciò che stava cambiando, del contesto rivoluzionario, con la Cina diventata il primo Paese manifatturiero e con grandi differenze che si creavano nel mondo e in Europa. Nel 2008 il palloncino si sgonfia e le rughe si vedono tutte». L’Eurozona scopre di essere in una crisi istituzionale profonda. «Avevamo creduto di correggere attraverso la moneta unica le differenze che ci sono tra Paese e Paese e tra i cittadini europei. Abbiamo del tutto sottovalutato il carattere sociologico dell’Europa. Il risultato è che le differenze sono ricomparse: Mario Draghi (presidente della Banca centrale europea, ndr) deve, per dire, tenere assieme Paesi dove la disoccupazione è al 25% con Paesi dove è al 5%». Con l’euro, che secondo Rocca «è stato un errore», si è creato un «mostro bifronte». E’ in questa cornice che l’Italia si è persa.
Durante gli anni dell’euro, quelli buoni pre-crisi, il Paese, abituato a competere attraverso periodiche svalutazioni della lira, ha via via perso competitività: calata del 25% rispetto a quella tedesca, quando la si misura come costo del lavoro per unità di prodotto (clup). «E’ come dire che nei nostri confronti la Germania ha avuto una svalutazione interna (dei costi, ndr) del 25%», spiega Rocca. Che su questo punto fissa il cardine della sua lettura della situazione e del da farsi: «La possibilità di stare insieme in Europa dipende dalla capacità di fare convergere i costi del lavoro per unità di prodotto, nella parte dell’economia che è esposta alla concorrenza ma soprattutto in quella che non lo è, i servizi e la pubblica amministrazione. La Spagna sta facendo scendere il clup, noi no. Ma se non riusciamo a farli convergere finiamo in una trappola con due sole possibilità: o si rompe l’euro oppure finiamo nell’asfissia, con la chiusura delle fabbriche, soffocate dalle tasse, dalla burocrazia, dal credito e via dicendo».
Si può fare? Rocca — che è presidente della Techint, una delle maggiori multinazionali italiane, e quindi ha un approccio da imprenditore che va sul concreto — dice che si può fare se si parte dai punti di forza che abbiamo. Il suo calcolo, fatto sulla bustina di Minerva, è che l’Italia esporta per circa 500 miliardi l’anno: sulle quattromila voci che compongono il commercio mondiale, in 1.215 battiamo la Germania nelle classifiche internazionali: 150 miliardi di export, in questi settori. E in 2.177 registriamo comunque un surplus commerciale. Dunque il punto di ripartenza c’è. «La matrice produttiva italiana non è dissimile da quella tedesca. La differenza sta nella profondità e nei freni a mano tirati che costringono il motore italiano».
Qui, per mostrare cosa sono i «lacci e i lacciuoli», Rocca confronta due tomi: il codice del lavoro svizzero, di 130 pagine, e quello italiano, di 2.700. Ma soprattutto si sofferma sulla «gravità epocale» dei casi Ilva e, anche se con impatto minore, Eternit. «Lo Stato rimane assente per anni — afferma — .Non dice niente su un’impresa e su un prodotto. Poi, all’improvviso, di fatto nazionalizza, per via punitiva. Altro che attrarre gli investimenti esteri: qui si apre la strada ai dubbi sulla capacità di governare noi stessi. E’ l’impresentabilità internazionale».
Per «prendere in mano il nostro destino», dovremo dunque mettere sotto controllo il «Moloch dello Stato»: solo dieci anni fa, la spesa pubblica al netto degli interessi era il 40% del Prodotto interno lordo, oggi è il 48%. «Siamo diventati statalisti». Secondo Rocca, questa spesa è fuori controllo e va ridotta del 2% l’anno. La lotta all’evasione fiscale è poi il secondo punto di attacco: soprattutto l’evasione dell’Iva arriva al 40-60% in alcune regioni; è da lì che occorre iniziare, e da quei «60 miliardi che la Corte dei conti dice che vanno in corruzione». Risorse da destinare all’alleggerimento del fisco sul lavoro e sulle imprese e a favore dei giovani, anche mettendo in discussione la riforma Fornero.
Il punto più innovativo del programma del nuovo presidente di Assolombarda è forse però il ruolo che prevede per il territorio. Cioè per Milano intesa come cuore di una grande area produttiva. «La competizione globale — dice — è tra grandi città metropolitane». Ed è in questo contesto che Milano deve operare e da qui guidare la ripresa dell’Italia. Rocca vede il territorio che insiste su Milano come uno dei länder, in un quadro nel quale — come in Germania — il centro si occupa di infrastrutture e energia e al land fanno capo le politiche sanitarie e dell’educazione. «Lo Stato incentiva la concorrenza — spiega —. Destina fondi e li assegna su basi competitive. È il land la dimensione organizzativa per competere nel mondo. Oggi, invece, la Ue sembra pensata per ammazzare i territori più deboli».
Secondo Rocca, c’è una questione settentrionale, nel senso che durante la crisi anche Milano e il Nord hanno perso terreno nella competizione globale. «Ma la si affronta lasciando volare i territori — sostiene —. Con una intelligente organizzazione istituzionale. Milano ha un desiderio di riscossa eccezionale. Ha punti di forza straordinari nell’export, nell’istruzione, nell’industria e nei servizi, nella produzione di brevetti: è questo che dobbiamo mobilitare». Il benchmark è Monaco di Baviera, che era undicesima nelle classifiche di capacità attrattiva europee quando noi eravamo noni e ora è nona quando noi siamo diventati undicesimi.
Rocca pensa che l’Expo 2015 possa aiutare Milano a capire la sua collocazione nel mondo e il suo ruolo. Ma non domanda alla politica di assistere la città. E non chiede agli industriali milanesi, lombardi, del Nord di occuparsi di politica. Non lo farebbero. Gli chiede di competere e di vincere per la loro impresa, per il loro territorio, dunque anche per l’Italia. Vedremo se lo seguiranno.
Danilo Taino