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 2013  giugno 11 Martedì calendario

LONDRA RIABILITA LA SUFFRAGETTA

Quello della suffragetta ingle­se Emily Davison non fu un martirio ma un gesto di di­sperato eroismo sfociato in tragedia. La verità sull’episodio più drammatico della storia del movi­mento per il diritto di voto alle don­ne è arrivata proprio mentre l’In­ghilterra celebra il centenario del­­l’attivista che morì nel 1913, travol­ta dal cavallo del re durante il derby di galoppo di Epsom Downs. Emily Davison voleva dare un’accelerazio­ne alla battaglia per il suffragio fem­minile compiendo un’azione cla­morosa durante il più famoso ap­puntamento mondano di tutta la Gran Bretagna. Da allora gli storici si sono divisi a lungo, senza riuscire mai a stabilire con certezza quali fos­sero i suoi reali propositi. Chi voleva screditarla ha sempre affermato che la quarantunenne originaria del Northumberland aveva scelto d’im­molarsi per la causa, trasformando­si in un’antesignana delle odierne donne-kamikaze. Ma le persone a lei più vicine, e soprattutto le sue com­pagne di lotta, hanno invece sempre sostenuto con decisione che voles­se soltanto attaccare la bandiera vio­la, bianco e verde del movimento delle suffragette alle briglie del ca­vallo del re, per farla sventolare fino al vicino traguardo. Questa ipotesi è stata definitivamente confermata da una sofisticatissima analisi digitale delle immagini dei cinegiornali d’e­poca e da una nuova ricerca storica basata sul materiale inedito conte­nuto in un archivio privato. I foto­grammi sgranati trasmessi in un do­cumentario andato in onda nei gior­ni scorsi su Channel 4 mostrano E­mily Davison appostata in uno dei punti nevralgici del percorso della gara, a un passo dalle ringhiere di protezione, lanciarsi all’improvviso verso il cavallo del re per tentare di afferrarne le briglie. L’urto, immor­talato dalle immagini d’epoca, fu tanto imprevisto quanto spettacola­re. La donna riportò una frattura cra­nica e varie lesioni interne, e morì l’8 giugno 1913, dopo una lunga agonia.
A lungo l’opinione pubblica britannica si è divisa sulla sua figura, anche a cau­sa dell’atteggiamen­to della stampa e dell’establishment, che l’hanno de­scritta per molto tempo come una squilibrata e una fanatica. Subito do­po l’incidente, non senza una certa enfasi, re Giorgio V si interessò alla sorte del cavallo e del fantino – usci­ti quasi incolumi dallo scontro – e manifestò grande disappunto per la giornata di festa rovinata dal gesto della suffragetta. La regina inviò un telegramma al fantino, augurando­gli di rimettersi al più presto da «un triste incidente causato dal com­portamento deplorevole di una don­na lunatica e terribile». Invece la Wo­men’s Social and Political Union, il movimento radicale delle suffraget­te impegnato nella lotta per l’ugua­glianza, la fece diventare subito un’i­cona. Il settimanale “The Suffraget­te” uscì con una copertina celebra­tiva che la raffigurava come un an­gelo alato e riportava la famosa cita­zione del Vangelo di Giovanni che fu poi incisa anche sulla sua tomba, «nessuno ha un amore più grande di colui che sacrifica la propria vita per i suoi amici».
Se oggi la storia ha reso finalmente giustizia alla Davison è merito an­che della lunga e dettagliata ricerca compiuta dalla storica Maureen Howes, che ha fatto confluire in un volume appena dato alle stampe ( E­mily Wilding Davison. A Suffragette’s Family Album) dieci anni di studio su materiale d’archivio finora inedito. Incrociando lettere e fotografie di fa­miglia con nuovi documenti della se­zione locale di Morpeth del movi­mento delle suffragette, la Howes è riuscita a dimostrare che solo per ca­so fu proprio lei a compiere il gesto spettacolare che la portò alla morte. Quel giorno di cento anni fa, inoltre, Emily si era già procurata un bigliet­to per il treno che doveva riportarla a Londra, e aveva programmato di recarsi a Parigi in visita alla sorella e al nipotino appena nato. Le militan­ti come lei avevano spinto la loro lot­ta fino al parossismo ed erano ben consapevoli dei rischi che correvano con le loro azioni spregiudicate. Ne­gli anni che precedettero l’inizio del­la Prima guerra mondiale, migliaia di donne inglesi di ogni estrazione sociale erano entrate nel movimen­to per compiere gesti dimostrativi clamorosi che sfociavano spesso in disordini. Interrompevano i comizi politici, lanciavano sassi contro le fi­nestre dei palazzi del governo, in­cendiavano cassette postali, s’inca­tenavano ai lampioni e alle ringhie­re durante le manifestazioni. Per questo venivano fermate, multate, malmenate, incarcerate e condan­nate ai lavori forzati. In prigione, do­ve finì più volte per attività legate al movimento, Emily Davison fece lo sciopero della fame e subì la bruta­le pratica dell’alimentazione forzata. Prima d’allora era riuscita a laurear­si in un’epoca in cui il diritto all’i­struzione era quasi del tutto preclu­so alle donne. Durante il censimen­to del 1911 si era nascosta di notte dentro il Parlamento di Westminster per poter dichiarare che la Camera dei Comuni era la sua legittima resi­denza. Per ricordare il suo sacrificio e la storica battaglia che ha cambia­to per sempre la democrazia in In­ghilterra e nel mondo occidentale nelle settimane scorse è stata inau­gurata anche una targa commemo­rativa all’ippodromo di Epsom.