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 2013  giugno 08 Sabato calendario

PENONE: IL MIO PATTO ARMONICO CON L’ALBERO

Giuseppe Penone è tra gli artisti meno “mediatici” del nostro tempo. Ha poco in comune con lo star system. Non si adegua ai riti della comunicazione facile ed effimera: non condivide il desiderio - sempre più diffuso – di produrre immagini facili, destinate a consumarsi in tempi rapidissimi, secondo una mera logica televisiva. Potrebbe essere considerato un erede dei grandi filosofi greci o dei pensatori della modernità (come Baruch Spinoza). Fin dai suoi esordi (nel 1968), come emerge da un’ampia monografia a lui dedicata (uscita da Electa nel 2012), si affida a gesti che riescono a essere invisibili e, insieme, potenti. Tende a non agire mai “dall’esterno”: non si limita a plasmare il marmo o la creta, imprimendovi i suoi segni. A differenza dei land artisti, non preleva pezzi dal paesaggio, per assemblare sculture provvisorie. Piuttosto, vuole compenetrarsi con parti del paesaggio stesso, che tratta come la materia prima della sua avventura poetica e plastica. È in dialogo costante con la natura. La contempla, la interroga, la rispetta. Si pone in uno stato di simbiosi e di empatia. Mira a identificarsi con piante e con tronchi. Talvolta, arriva a mimetizzarsi con il mondo che lo circonda: un mondo originario, che non è stato ancora contaminato dalla civiltà. Intrattiene relazioni con il tutto, che egli percepisce come un campo di forze impossibile da dominare.
A guidarlo è la convinzione secondo cui, come ha ricordato Germano Celant, «ogni cosa si anima e partecipa di una rappresentazione, dove gli elementi (…) interagiscono e si scambiano i ruoli energetici». Si determinano continui scambi, corrispondenze. L’artista abbandona ogni prerogativa metafisica, per fondersi con il cosmo. E, quasi spinto da una forza vitale e panica, “si sente” albero, fiume, tubero. Vuole dare voce al ciclo di una natura “inseparata” e inscindibile. Che è come una Grande Madre nella quale sfumano i confini tra interno ed esterno, tra anima e corpo. Questa filosofia verrà celebrata nell’affascinante itinerario disegnato nel giardino di Versailles, dove si terrà la prossima mostra di Penone (a partire dall’11 giugno).
Versailles ha orientato le sue scelte?
Versailles non ha inciso sulle mie scelte. Per larga parte, esporrò sculture già prodotte o concepite in precedenza. A Versailles, non organizzo elementi plastici estranei all’interno dello spazio, con finalità architettoniche. Piuttosto, dispongo le mie opere in quella scenografia. Voglio saldare visione e controllo della natura, nella consapevolezza che la natura non si fa mai disciplinare. Ho proseguito nella mia riflessione sulla logica sottesa al vegetale: sul suo sviluppo, sul suo equilibrio. Studio la presenza delle foglie, la vita segreta delle radici. Penetro nelle vene dei materiali.
A Versailles avrà la possibilità di intervenire in uno dei parchi più sontuosi dell’Occidente. Una straordinaria occasione per ritornare sul suo “tema” per eccellenza: la natura. Che rapporto esiste, secondo lei, tra Natura e Storia?
La Storia è un particolare. Ed è inserita in una cornice più ampia: la Natura. Che non resta mai ferma, ma si trasforma e ci sovrasta. Ogni nostra esperienza ne è parte. Per me, l’uomo è innanzitutto natura. Se una persona vive, è subito portata ad agire su ciò che le sta intorno, attraverso il tatto, l’olfatto, la vista.
La sua idea di scultura è strettamente legata al “peso” della natura.
Scolpire, per me, significa estrarre volumi da quel che ci circonda. Il mio modo di intervenire accompagna il divenire della realtà in cui sono immerso. Il mio contatto è come “memorizzato” dai tronchi degli alberi, nella loro crescita.
Pensa la scultura come una pratica maieutica, tesa a “tirar fuori” dalla natura forme?
Non so se si tratti di una pratica maieutica. Il mio è lo stupore di chi vede ciò che esiste già. Decisivo, per me, è il suggerimento che mi viene dall’osservazione delle materie. È evidente che siamo agli antipodi del “discorso” portato avanti da molti protagonisti dell’arte contemporanea, attenti soprattutto al sistema della comunicazione. Mi sento del tutto estraneo a questo sistema. I media sono legati all’attimo, all’evento: sono veloci, pervasivi. La scultura, invece, è fatta per durare. Si dà come invito a sottrarsi alla cronaca, per spingersi verso la permanenza. Occupa spazio. Non serve più a decorare edifici o a commemorare personaggi. Ma costringe ancora il pubblico ad avvicinarsi a essa. È una disciplina difficile. Richiede meditazioni lunghe e tempi esecutivi molto dilatati.
Un aspetto centrale della sua ricerca - davvero poco frequentato dagli artisti mediatici - è il “saper fare”: quella che gli antichi greci chiamavano metis.
Nell’arte, la metis è tutto. Serve per conoscere dall’interno la natura: per coincidere fisicamente con essa. Ma non va intesa come una grammatica di regole da ripetere. Occorre reinventarla, rompendo consuetudini e convenzioni. Ad esempio, io non propongo mai calchi. Spesso, fondo parti o rami; sottolineo strutture; modifico le forme preesistenti. Ma evito aggressioni o violenze. Le sue opere sembrano marcare una netta distanza dall’impegno civile. Tutto quello che dico è legato sempre alla disciplina del fare. Mi esprimo attraverso il gesto dello scolpire: non attraverso le parole. Eppure, proprio in questo si nasconde una dimensione sottilmente politica.