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 2013  giugno 08 Sabato calendario

PINO DANIELE: «LA MIA CASA È COME UN BLUES CHE CAMBIA»

Uno zingaro felice. Pino Daniele ha ormai varcato i confini dell’Italia. Dopo i concerti del 2012 a New York, primo italiano all’Apollo Theatre, Boston e Washington, quest’anno si è già esibito al Barbican di Londra e al Théâtre Saint-Michel di Bruxelles. Poi a grande richiesta è tornato in Nordamerica, come ambasciatore della nostra canzone per l’Anno della cultura italiana negli Stati Uniti. «Zingaro con la mania del calcinaccio», precisa Daniele, 58 anni, trenta album incisi in trentasei anni di carriera e una serie di collaborazioni da far invidia a Sting: Eric Clapton, Gato Barbieri, Chick Corea, Richie Havens, Salif Keita, Pat Metheny e Wayne Shorter, solo per citare pochi nomi. «Sarà che io una casa non l’avevo mai avuta prima di iniziare questo mestiere», racconta Pino, «ma da quando ho comprato il primo mattone non ho fatto altro che restaurare, vendere e ricomprare».
«Non lo faccio con lo spirito dell’imprenditore», spiega Pino Daniele. «Lo scopo è sempre quello di godermi per primo le case che faccio. Una per volta, non sono mica un costruttore. Diversamente sarebbe un hobby troppo costoso anche per me».
Quest’anno per la prima volta si è concentrato su un locale anziché sulla solita villa di campagna o sull’appartamento in città. Ha da poco inaugurato il Tuscany Bay, sull’Argentario toscano, nell’incantevole baia della Giannella. Stabilimento balneare, ristorante Le Colonie con vista sul Tirreno, e il T-Bay Jazz Bar, l’angolo che gli è più caro, riservato alla musica live. «Il locale ha avuto una lunga gestazione», racconta. «Ne abbiamo parlato quattro anni con l’architetto e col mio socio Paolo Fantoni, un esperto di ristorazione, titolare del Cartello ad Ansedonia. Aprire uno stabilimento balneare era un sogno che covavo da anni. L’ho immaginato come uno di quei club di Juan-Le-Pins dove si sono esibiti tutti grandi jazzisti durante il mitico festival. Mi è sempre piaciuto vivere a contatto con la natura. Suonare di fronte al mare è un privilegio».
Quando nel 1977 pubblicò il disco d’esordio, Terra mia, Pino Daniele era un musicista di belle speranze e nessuna certezza. La sua casa discografica credeva nel suo talento ma nicchiava a promuovere un artista che non aveva immagine, non seguiva le mode e aveva preteso una copertina decisamente poco commerciale. «Infatti non vendette una copia», conferma. Fu solo dopo
Nero a metà, tre anni dopo, che l’Italia si accorse di lui e le canzoni dei due dischi precedenti, come Na tazzulella ‘e cafè e Je so’ pazzo, diventarono dei classici del suo repertorio. «Con i primi guadagni comprai una microscopica villetta a Formia che ora è rimasta alla mia ex moglie», racconta. «La restaurai con una cura maniacale, era la prima cosa che possedevo in vita mia. Così iniziò la mia passione, che ho portato avanti con la stessa disciplina con cui ogni giorno suono la chitarra».
Pino Daniele vive a Roma, ma il suo rifugio è in Toscana, a Magliano, non lontano dal Tuscany Bay, «un paradiso per i bambini, una casetta con un pezzo di terra che ho comprato sei anni fa, anche se la mia vita è in città perché non potrei vivere troppo tempo lontano da uno studio di registrazione ». «Non so perché ho questa mania», aggiunge l’artista, «ma seguire la ristrutturazione di un immobile mi dà una straordinaria euforia. Con l’aiuto dell’architetto milanese Daniele Fiori, un genio a mio avviso, e un amico che fa l’artigiano in Brianza ho allargato il mio know how ai materiali, agli infissi, alle pareti mobili. Ma mi piace anche fare a modo mio. Dopo che l’architetto ha dato il via al progetto pretendo di andare avanti da solo. In tutte le case che ho ristrutturato ci ho sempre messo del mio, in sintonia con la musica — elementi etnici e minimalismo».
I frequenti traslochi, dice, riflettono la sua natura di nomade. «L’idea del nido non mi piace. Come dicono gli arabi la mia casa non finisce mai. Forse perché ho sempre avuto il bisogno di trovarla dentro di me la casa. Chi è cresciuto alla scuola del blues rimane sempre uno zingaro; prepari la borsa, ci metti dentro quattro camicie, che poi fai lavare negli alberghi, e parti. I punti fermi sono altri, la famiglia, i figli. Ho avuto molti problemi nella vita, nato con una malformazione a entrambi gli occhi, campo visivo limitato; tra i trentacinque e i trentasei anni ho subito interventi al cuore, ma riesco a convivere benone con le limitazioni fisiche. I miei cinque figli meravigliosi e la musica mi ripagano di tutto. La canzone mi è sempre andata stretta, ecco perché mi rifugio nel jazz. I duetti sono diventati di moda, mi sono trovato bene con Mario Biondi, Giorgia, Irene Grandi e Biagio Antonacci, ma oggi mi sento più a mio agio con le jam session. Ci vediamo spesso con Federico Zampaglione, che è un grande suonatore di blues, e improvvisiamo fino alle ore piccole. Per un artista arrivare a far quel che gli piace senza scendere a compromessi è un privilegio; la libertà è una condizione essenziale per la creatività. Io il mio ruolo di cantante l’ho vissuto un po’ male all’inizio degli anni Ottanta quando ero diventato “di moda”. Che è una cosa pericolosissima perché incominci a prenderti sul serio, cominci a credere che gli altri ti seguiranno qualsiasi cosa tu faccia. Alla fine cosa resta? Quel che sei veramente, quello che vedi ogni mattina allo specchio. Sono un musicista particolare, credo molto nei rapporti spirituali con le persone e con le cose; sento molto, parlo poco e non sono uno che scrive, scrive, scrive. Suono in maniera molto istintiva, vivo giorno per giorno tutto quel che mi succede. Mi piace costruire, mi piace fare progetti importanti. Con la chitarra e con i mattoni ». Dopo i trionfi a Piazza Plebiscito, tornerà a suonare a Napoli alla fine dell’anno. «Ormai sono più a mio agio come strumentista, a suonare e a divertirmi girando il mondo con un gruppo di jazzisti. L’esperienza negli Usa è esaltante. È bello suonare dove è nato il blues. Mi piace vedere le loro reazioni di fronte alla nostra musica. Noi napoletani siamo dei privilegiati in America avvezzi come siamo alle contaminazioni. Quando suono a Napoli mi sento come se stessi rientrando nel flusso quotidiano, al centro della canzone popolare, ed è una bella sensazione perché solo lì capisco veramente quel che la mia musica ha significato per tanta gente. La verità è che forse a Napoli mi prendo un po’ più sul serio». Anche questa è casa.