Stefano Agnoli, CorrierEconomia 10/06/2013, 10 giugno 2013
CONTI «BASTA CON L’ASSEDIO ALL’INDUSTRIA ELETTRICA»
Un mercato continentale integrato, dove si possa tornare a investire in innovazione per l’energia sostenibile. Il mondo ideale dei produttori elettrici sarebbe questo per l’amministratore delegato dell’Enel, Fulvio Conti. Ma dopo cinque anni di crisi, la realtà è ben diversa, e lo stesso Conti lo ha ricordato ai suoi colleghi chief executive officer pochi giorni fa alla riunione annuale di Eurelectric, la Confindustria europea del settore. Incertezza regolatoria; governi affamati di tasse ad hoc come la Robin Tax; direttive Ue incoerenti; sviluppo selvaggio delle rinnovabili; segnali di prezzo contraddittori: tutte piaghe che affliggono un comparto che vale il 3% del Pil europeo.
Partiamo dai consumi elettrici, una spia importante per le economie. Che segnali ci sono?
«Se guardiamo all’Italia anche nel 2013 la caduta della domanda continuerà. Ad oggi la contrazione è del 3,4%, il che lascia presagire una flessione sull’arco dell’anno che si sposa con le previsioni di un Pil in calo di oltre l’1%. Un andamento che si inserisce in un trend già in discesa: i consumi 2012 sono stati pari a quelli del 2004, e nel 2013 saremo a livelli del 2002-2003. A buona ragione si parla di a lost decade».
Pensi se foste nel bel mezzo della costruzione di una centrale nucleare...
«Guardi, saremmo stati ancora nel bel mezzo del processo di autorizzazione, e di fronte a un calo della domanda così pronunciato avremmo avuto tutto il tempo di fermare le macchine».
Calo della domanda, prezzi distorti dai sussidi, effetto spiazzamento delle rinnovabili. Queste ultime più che un’opportunità di sviluppo tecnologico e di green economy paiono essere il problema...
«No, su questo sono categorico. Noi siamo ben felici di essere nelle rinnovabili con Enel Green Power e il loro sviluppo è coerente e allineato agli interessi dei consumatori e dell’industria. Inadeguati sono stati gli eccessi di incentivazione in Italia e in Europa, che si sono tradotti in un’ondata parossistica di investimenti in Italia, Germania e Spagna. Ciò ha portato a delle evidenti distorsioni: in nome del mercato si sono trasferiti costi rilevanti a carico dei cittadini, mentre l’impennata delle installazioni ha bloccato lo sviluppo di una filiera di tecnologie nazionali. Cosa che noi di Enel abbiamo peraltro cercato di fare con gli accordi con Sharp e StM. E in pochi hanno il coraggio di dire apertamente a quanto ammontano i costi che ricadono sulle tasche dei consumatori (12 miliardi di euro l’anno, nda). Quando lo fanno i produttori termoelettrici piovono le accuse di essere avidi monopolisti».
Bisognerebbe quindi ritoccare ancora le tariffe per le rinnovabili? Il settore vede con orrore la possibilità di ulteriori revisioni, addirittura retroattive...
«Sono decisioni che competono ai governi. È normale che tagli retroattivi non siano bene accetti, oltre ad essere probabilmente incostituzionali. Ma di correzioni prospettiche si potrebbe discutere».
Secondo i produttori termoelettrici si potrebbe ovviare alla situazione con il capacity payment. In fondo è un sussidio che volete?
«No, non si tratta di un sussidio, ma di un servizio. Le faccio una domanda io: l’Rc auto la considera necessaria?».
L’Antitrust dice che la paghiamo troppo...
«Questa non è la risposta. La risposta è che è necessaria. Il "quanto costa" viene dopo e può essere oggetto di accordo successivo».
Si spieghi meglio...
«È evidente che le rinnovabili giocano un ruolo sempre più importante. In alcuni momenti della giornata arrivano a coprire fino al 50% del fabbisogno, per poi crollare anche sotto al 10%. Si tratta di oscillazioni pericolose se non supportate da un sistema di riserva. Ci sono impianti che ormai lavorano 500 ore all’anno, ovvero il 5-6% della loro potenzialità; ma vanno mantenuti e spesati perché senza di essi non avremmo tutta l’energia che ci serve».
Come spiega ai suoi colleghi in Confindustria che il prezzo dell’energia italiano è più elevato di quello degli altri Paesi europei?
«Mostrando loro che il nostro mix di fonti è basato su gas, carbone, rinnovabili e zero nucleare. In Francia circa l’80% è nucleare, la Germania ha molto carbone e lignite, peraltro sussidiati, e nucleare. Se in Europa il costo opportunità è di 40 euro al megawattora, da noi è a 60 euro. È vero che sulla distribuzione siamo imbattibili. Ma cadiamo ancora sugli oneri accessori, la famigerata componente A3. E non finisce qui, perché gli altri Paesi fanno anche altre scelte...».
Quali?
«Prendiamo ancora la Germania. La signora Maria italiana paga l’energia elettrica 19 centesimi al kilowattora, quella tedesca quasi 26: insomma, là le famiglie pagano di più. Sulle grandi industrie non c’è molta differenza. A soffrire, in Italia, sono invece le piccole e medie imprese: è su di loro che si scaricano i costi. In Germania, che ha più o meno la stessa proporzione italiana di piccole e medie imprese, hanno invece scelto di esentarle da pesi eccessivi, rovesciando gli oneri accessori sui cittadini».
L’industria elettrica europea chiede una riforma del sistema Ue dei «permessi d’inquinamento», l’Ets. Ma poche settimane fa l’Europarlamento ha bocciato la proposta di cancellare permessi in sovrappiù al fine di rivitalizzare il mercato della CO2. Troppo rischioso in questo momento di crisi far pagare al sistema economico oneri supplementari, si è detto. Chi ha ragione?
«Sono tante le storture dell’Ets che vanno corrette. Noi vogliamo un sistema che diversamente da quanto accade oggi mandi i segnali di prezzo necessari a favorire gli investimenti in tecnologie per la "decarbonizzazione". L’Europa vuole essere "decarbonizzata", ma poi guarda solo a un settore, il nostro, che produce circa il 40% delle emissioni totali. È vero che le abbiamo già ridotte del 20%, ma ciò è avvenuto prevalentemente con la chiusura di impianti. Ora chiediamo quali siano gli obiettivi che l’Europa si pone per il 2030, e che l’aggravio venga esteso ad altri settori produttivi».
Ma l’obiettivo stesso della riduzione delle emissioni di CO2 non è un lusso per un’economia europea che fatica?
«Ma vogliamo progredire o riportare le lancette dell’orologio a dieci anni fa? Ora è troppo tardi per dire "fermiamoci, abbiamo sbagliato". Dobbiamo fare diventare la "decarbonizzazione" un’opportunità, a maggior ragione proprio in un momento di crisi. Promuovere l’auto elettrica, le pompe di calore, l’autoproduzione, le reti e i sistemi intelligenti».
Lei è alla guida dell’Enel dal 2005, ha vissuto la crescita internazionale, poi il consolidamento. Un periodo complicato dalla recessione e dal debito che il gruppo si trascina. Verso quale nuova fase state andando?
«Anche quella attuale a suo modo è affascinante. Dobbiamo difendere i nostri margini in economie mature come Italia e Spagna, e malgrado la crisi i risultati dimostrano che ce la caviamo bene. Con Enel Green Power, nata da una nostra costola, abbiamo sviluppato negli ultimi 4 anni nuovi filoni di attività. Abbiamo un mix di prodotti eccellente, il Gruppo Enel distribuisce elettricità a Rio, Bogotà, Santiago, tutti Paesi in crescita. Siamo solidi e mostriamo di essere capaci di servire questo debito con l’investment grade. Certo, dobbiamo accelerare in tempi di crisi il rientro del debito per recuperare la nostra flessibilità finanziaria. La prossima fase sarà quella dell’ulteriore deleveraging, per tornare a far crescere i nostri flussi di cassa».
La scorsa estate aveva dichiarato che si sarebbe ricandidato alla guida di Enel. Lo riconferma?
«È una scelta che spetta agli azionisti. Intanto continuo a lavorare al consolidamento e al rilancio del gruppo».
Stefano Agnoli