Carlo Vulpio, la Lettura (Corriere della Sera) 09/06/2013, 9 giugno 2013
IL PROFETA DELL’OMEOPATIA CHE SFIDO’ LA MEDICINA
Poiché la storia della medicina omeopatica, soprattutto in Italia, è anche la storia di un pregiudizio e di ripetuti anatemi, non si può non gioire per la fine di questo pregiudizio, che finalmente si spegne dopo un calvario durato sessantacinque anni. Un cammino faticoso e contromano che si può riassumere, senza togliere nulla a nessuno, con un nome, Antonio Negro, morto nel 2010 a 102 anni, e con tre date simboliche — 19 luglio 1947, 2 luglio 1984, 17 giugno 2013.
Quest’ultima è la data in cui verrà inaugurato a Roma, in piazza Navona, il primo Museo dell’Omeopatia. Un museo come non ce n’è in nessun’altra parte d’Europa, nemmeno nel Centro omeopatico europeo di Bruxelles. Qualcosa di simile si trova all’Istituto di storia della medicina di Stoccarda — dove, a cura della Fondazione Bosch, sono custoditi i manoscritti delle opere del medico e scienziato Samuel Hahnemann, il padre dell’omeopatia nato in Germania nel 1755 —, ma si tratta più di un archivio che non di un museo. A Roma, invece, la Fondazione Negro ha allestito un museo vero e proprio (documenti e oggetti provengono in gran parte dalla biblioteca medica e dall’archivio privato del professor Antonio Negro), che abbiamo visitato in anteprima: libri rari, edizioni uniche, manoscritti — di Hahnemann, ma anche di Costantin Hering, anch’egli tedesco, «esportatore» dell’omeopatia negli Stati Uniti — e memorabilia di ogni tipo, tra i quali più di duecento trousse di rimedi omeopatici, come quella, elegantissima, dell’ultima zarina, Aleksandra Feodorovna, che si curò omeopaticamente fino a quando a corte non arrivò il monaco «guaritore» Grigorij Rasputin.
Il 17 giugno prossimo, l’inaugurazione del museo da parte del ministro della Salute dovrebbe segnare l’ultima tappa di quel pregiudizio antiomeopatico che ancora oggi rispunta a intermittenza, ma con non minore ferocia, e contro il quale Antonio Negro, ligure di Alassio, si batté fin da giovane, grazie all’incoraggiamento e al sostegno di Nicola Pende, pugliese di Noicattaro, che fu suo maestro, oltre che fondatore della moderna endocrinologia, e gli diede il permesso di prescrivere rimedi omeopatici. Anche se in realtà, dirà Negro, «io l’omeopatia l’ho conosciuta all’età di dodici anni, quando guarii grazie alle cure del nostro medico di famiglia, l’omeopata Dante Biscella, che si era perfezionato allo Hahnemann Medical College di Filadelfia». Nomi di persone e di luoghi, fino a quel momento, sono quasi sempre stranieri. Anche tra i pazienti famosi. Nel mondo della musica, per fare un esempio, troviamo soltanto due italiani — Niccolò Paganini e Luigi Cherubini —, gli altri si chiamano Fryderyk Chopin, Johannes Brahms, Robert Schumann, Richard Wagner, Maurice Ravel, Cole Porter.
In Italia l’omeopatia arranca, negli anni Trenta ci sono soltanto tre farmacie omeopatiche, ma nel dopoguerra c’è un risveglio che convince Negro a fondare assieme ad altri medici il Centro ippocratico hahnemanniano italiano. È il 19 luglio 1947. «È tempo — dice Negro — che la diffusione dell’omeopatia in Italia raggiunga lo sviluppo che ha negli altri Paesi». Due anni dopo, il Centro organizza i primi corsi. A Roma, a Milano e a Napoli — storicamente l’epicentro della omeopatia italiana — dove nel 1970 con Alma Rodriguez, Tomas Paschero e Proceso Ortega, Negro fonderà la Luimo (Libera università internazionale di medicina omeopatica). Poi ci sono l’Europa — specialmente le scuole svizzera e francese — e il mondo intero: India, America Latina, Israele, ancora oggi all’avanguardia nella ricerca e nella pratica omeopatiche; e gli Stati Uniti, dove dei duecento ospedali omeopatici «puri» (informati ai principi hahnemanniani) non ne è rimasto nemmeno uno. «Dopo la morte di Hering, la tradizione omeopatica negli Usa è stata distrutta dallo strapotere delle industrie farmaceutiche — dice il professor Francesco Negro, figlio di Antonio e omeopata anch’egli —. Sono rimasti soltanto i bellissimi volumi di omeopatia, molti dei quali italiani, della Libreria del congresso».
In quegli anni dell’immediato dopoguerra l’omeopatia italiana, avversata e spesso anche derisa dalla medicina ufficiale, fa grandi passi avanti e, soprattutto, cerca con essa un confronto pubblico, franco, aperto. Non solo per confutare accuse infondate e per affermare un principio logico e scientifico quant’altri mai, e cioè che non si può criticare senza conoscere e addirittura bocciare ignorando, ma soprattutto per superare dogmi inutili. In una magistrale conferenza del 1948, a Roma, al Centro internazionale di comparazione e sintesi diretto da monsignor Maurizio Raffa, Negro — affrontando il tema della malattia e dei malati da Alcmeone di Crotone (V secolo avanti Cristo) a Ippocrate di Kos, da Galeno di Pergamo a Paracelso, fino a Samuel Hahnemann — afferma che il dualismo medico omeopatia-allopatia è una lotta insensata. «È un dualismo che separa quanto è destinato a essere unito — dice Negro —. Infatti la medicina è una: essa analizza l’uomo quale costrutto materiale, per sintetizzarlo nel suo complesso psico-fisico». Le certezze dei denigratori vacillano, persino Pio XII e poi Paolo VI (ma il primo Papa a provare l’omeopatia fu Leone XIII) ricorrono con successo alle terapie omeopatiche somministrate dal professor Negro, che per questo viene insignito del prestigioso titolo di commendatore dell’Ordine di San Gregorio Magno. E dopo i papi, sarà la volta del grande pianista Arturo Benedetti Michelangeli, dei presidenti della Repubblica Sandro Pertini, Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro, del soprano italo-statunitense Anna Moffo e di Eduardo De Filippo. Oltre a tutti quei personaggi famosi di cui non si può fare il nome per ovvie ragioni di riservatezza e di tutti quei medici allopati, anche luminari, che si curano con l’omeopatia ma non vogliono che si sappia. Ma dieci milioni di persone in Italia e oltre seicento milioni nel mondo che si curano con l’omeopatia non sono un’opinione. Evidentemente, se ci sono ancora atteggiamenti negazionisti e contrasti ingiustificati è perché, come disse Negro il 2 luglio 1984 in una conferenza all’Istituto superiore di sanità, «c’è un grosso problema di cultura». Ma poiché — aggiunse — nessuna teoria può negare i fatti, «è sommario e superficiale accusare la medicina omeopatica di ciarlataneria: noi non curiamo col pendolino o con i tarocchi». E rivolgendosi agli allopati: «Noi e voi tendiamo, quale fine ultimo, alla sanità dell’uomo. Quindi dovremmo instaurare uno scambio di verità, superando così la pesante ipoteca di una economia farmaceutica alla quale non farà mai comodo una medicina come la nostra. Noi vogliamo uscire dal ghetto, ma non con lo spirito di chi si deve scusare di esercitare la sua medicina, quella con la quale cura se stesso, i suoi cari e le persone che hanno fiducia in lui».
Il Museo dell’Omeopatia vuol essere anche questo, un modo per uscire definitivamente dal ghetto e abbattere ogni pregiudizio. «In un’epoca che poco alla volta — disse ancora, profeticamente, Antonio Negro in quell’orwelliano 1984 — ci sta trasformando nelle appendici biologiche delle macchine e nei servi sciocchi di inconfessabili interessi altrui».
Carlo Vulpio