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 2013  giugno 09 Domenica calendario

UN MONDO SCRITTO A MANO

Nel settembre del 2009, sul «Guardian», Umberto Eco ha pubblicato un articolo dal tono apparentemente conservatore. Il semiologo si dice inquietato dinanzi a uno scenario dove più della metà dei ragazzi italiani commette errori ortografici e mostra gravi «problemi con la grafia». Un’autentica tragedia che è cominciata molto prima dell’avvento del computer e del cellulare. L’inizio della decadenza risale addirittura alla scoperta della penna a sfera. «La gente non aveva più interesse a scrivere in quanto, con questo prodotto, la scrittura non ha anima, stile e personalità», osserva Eco. Che aggiunge: «La mia generazione ha imparato a scrivere a forza di ricopiare in bella grafia le lettere dell’alfabeto. Può sembrare un esercizio ottuso e repressivo, ma ci ha insegnato a tenere i polsi fermi sulle nostre scrivanie, sui nostri computer portatili». È una sorta di minima ginnastica fisica e mentale, che era stata già elogiata da Nabokov: «Quel che si scrive con fatica, si legge con facilità».
Una riflessione nostalgica. Proposta però non da un anti-moderno, ma da uno tra i primi studiosi italiani che ha colto l’importanza dei media. Come si spiega questo ripensamento? Non siamo affatto di fronte a un apologo del pennino e del calamaio. Piuttosto, secondo Eco, proprio in un’epoca come la nostra, segnata dalle mitologie della rapidità e del dinamismo, si avverte con maggiore forza il desiderio di ritornare a valori come rigore, disciplina, serietà, lentezza. Sono virtù che confluiscono nella scrittura a mano. Che «insegna a controllare le nostre dita e incoraggia la coordinazione occhio-mano». Del resto, conclude Eco, «le persone non viaggiano più a cavallo, ma molti vanno a scuola di equitazione. Esistono strade e ferrovie, ma le persone si godono a piedi i valichi alpini».

Da qui è partito l’indomabile Hans-Ulrich Obrist, per dar vita a un affascinante progetto. Sorretto da un talento istintivamente intermediale, impegnato a portarsi al di là delle barriere che separano codici e linguaggi, eclettico e nomade, animato da sfrenata generosità e da ingenua curiosità, il co-direttore della Serpentine Gallery di Londra qualche mese fa ha cominciato a chiedere a personalità diverse, spesso lontane dal punto di vista culturale e generazionale, di consegnargli una pagina scritta a mano. Artisti, scrittori, filosofi, storici, registi e musicisti. Tra gli altri: Yoko Ono, Friedman, Parent, McCarthy, Barceló, Eliasson, Gilbert&George, Trockel, Tiravanija, Weiner, Abramovic, Fuentes, Sala, Giorno, Oliveiros, Weisel, Golub, Hobsbawm, Malouf, Dyson, Atkins, Ai Weiwei, Dario Argento.
I neoamanuensi hanno donato materiali eterogenei: appunti privati, aforismi, giudizi, meditazioni, confessioni, dichiarazioni, pagine di diario. E, poi, barlumi di urgenze e messaggi al mondo. Tante le profezie: tra le altre, quella dell’artista cipriota Panayiotou, in cui appare «tomorrow» accompagnato da «x n», per evocare le incertezze dell’avvenire. Ogni «voce» ha accettato con entusiasmo la sfida dello scrivere a mano: ognuno ha lasciato passare qualche traccia di sé.
Finora — da metà dicembre 2012 — a Obrist sono arrivati più di 250 «fogli», che sono custoditi in una biblioteca in divenire. Una biblioteca che, quotidianamente, si arricchisce. Non recintata in un luogo fisico, ma immateriale, liquida, gestita grazie a due applicazioni come Instagram e Twitter: basta collegarsi ai profili di Obrist. I «post» sono radunati in ordine cronologico e in una mappa dove si suddividono i contributors per nazione di appartenenza.
Per spiegare la sua avventura, il critico svizzero — che per «la Lettura», con la quale da tempo collabora, ha fatto una selezione di alcuni tra i più significativi handwritings — si richiama alla nozione di détournement, elaborata dal padre del situazionismo, Guy Debord. Una categoria che allude alle pratiche della deviazione e del dirottamento, del depistaggio e della decontestualizzazione: si assume un concetto, e lo si ibrida.
È qui la filosofia di Obrist. La sua ambizione: rendere più umanistici Instagram e Twitter e, insieme, contaminare il gesto della scrittura a mano. In lui, vi è il desiderio di saldare due culture: una antichissima e una ultramoderna. Egli punta ad accostare manualità e informatica, controllo artigianale e immediatezza comunicativa, la dimensione «chiusa» della pagina bianca e l’assenza di confini del web. L’obiettivo è quello di mediare tra territori distanti. Non limitarsi ad accettare la tecnologia come ineluttabile fatalità, né soccombere alle sue derive, ma neanche rifiutarla nell’ottica di un neoluddismo. Piuttosto, Obrist la accoglie come una straordinaria opportunità, suggerendo un cortocircuito tra momenti poco contigui. La scrittura, intesa come esperienza originaria: «Scrivo (…) per farmi strumento di qualcosa che è certamente più grande di me e che è il modo in cui gli uomini guardano, giudicano, commentano, esprimono il mondo: farlo passare attraverso di me e rimetterlo in circolazione» (Italo Calvino). E la rete, nella quale, come ha sottolineato Baricco, il Senso non è più legato a un «ideale di permanenza, solida e compiuta», ma si dissemina in una «forma che è piuttosto movimento, struttura lunga, viaggio», tessitura di diversi saperi in una visione plurima, sfaccettata.
Con il suo nuovo progetto, Obrist tocca un tema centrale della cultura attuale. Che, contrariamente a quanto spesso si sostiene, non si offre (solo) come una civiltà dell’immagine, ma come un impero dominato da costanti e impreviste riprese del rito della scrittura (anche se non a mano). Viviamo, infatti, in una sorta di «mondo.doc», plasmato dalla vertiginosa tendenza a produrre documenti, affidati alle mail, a Facebook, a Twitter, a Instagram. Si tratta di «atti iscritti». Testi redatti, registrati, inoltrati a un pubblico esteso e spesso invisibile, destinati a essere commentati a oltranza.
Su questa soglia — tra fascinazione per i new media e riconsiderazione delle origini — si situa Obrist. Il quale mira a dar vita a un archivio plurale, stratificato, in progress, simile a un’architettura estrema e paradossale. Un’appendice di quell’enciclopedia della parola che lo stesso Obrist sta assemblando da anni: le interviste a figure di diversa estrazione raccolte in giro per il mondo. Forse, tra i più significativi e mossi ritratti del nostro presente. Ma forse anche un’involontaria opera d’arte totale. Debordante, senza centro, a-sistematica, incompiuta, frammentaria. Proprio per questo, seduttiva. E fino in fondo contemporanea.
Vincenzo Trione