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 2013  giugno 09 Domenica calendario

E’ LO SQUALLORE CHE MI COMMUOVE

«Dopo un libro del genere all’autore non resta che scegliere tra due opzioni: o spararsi in bocca o stendersi ai piedi della croce».
È una battuta di Barbey d’Aurevilly. La scrisse dopo aver letto À rebours di Huysmans. La propongo a Paolo Sorrentino. Anzi, gliela sbatto in faccia. Gli chiedo se non si possa dire altrettanto di lui, e soprattutto di Jep Gambardella, l’insuperabile eroe de La grande bellezza.
«Be’» sorride Sorrentino «per me non saprei, ma sono certo che per Jep esista una terza via».
Il colloquio avviene a poche ore dalla partenza di Sorrentino per Cannes: non so ancora che La grande bellezza non otterrà premi; né che, en passant, sbancherà i botteghini italiani; tanto meno so (come potrei?) che la controversa ricezione del film da parte della cosiddetta stampa ufficiale sarà motivo di accigliate riflessioni sullo stato di salute della militanza critica in Italia.
Tale verginità rende ancor più semplice attenermi a un vecchio credo: fidati solo dei sensi, dei tuoi sbadigli e di radicati pregiudizi estetici.
«La terza via di Jep è lasciare tutto così com’è» dice Sorrentino. «Del resto il film finisce con Jep che scrive la prima frase del nuovo romanzo. Non sapremo mai se riuscirà a scrivere anche la seconda, la terza, la quarta, e così via».
Tu che dici, ce la farà?
«Direi di no. Se lo conosco non ce la farà. Jep mi somiglia: è un dissipatore. Anche a me capita di trovare un buon incipit e di fermarmi lì. Ho i cassetti pieni di incipit promettenti».
Quindi anche la riscoperta della vocazione di Jep è l’ennesima patacca?
«Forse sì. Lui non vuole rompere con quel mondo, con quella vita. E Dio solo sa se lo capisco».
Anche tu sei invischiato con la mondanità?
«Parlavo del film. Del mondo del film. Di solito riesco a staccarmi abbastanza presto da un film. Stavolta no. Se mi chiedessi che film mi piacerebbe girare adesso, ti direi: il sequel de La grande bellezza. Che so, Jep molla il romanzo, torna a Roma e ricomincia da dove ha lasciato».
Uno dei segni della sopraggiunta maturità artistica è la perdita di interesse per la trama: l’ellissi è la più ambiziosa delle figure retoriche.
«In me la ricerca ossessiva di un plot è quasi evaporata. E pensare che quando ho cominciato questo mestiere ne ero così ossessionato. Ora sento il plot come un ostacolo. Prima di dirottare l’idea su un film avevo pensato di fare di Jep l’eroe di un libro. Nei romanzi (almeno per come li concepisco) si può essere molto più liberi. Solo facendo i primi sopralluoghi, le immagini hanno preso il sopravvento sui personaggi e sull’intreccio».
La grande bellezza è un titolo ironico?
«Mi dispiacerebbe se qualcuno lo intendesse così. Non volevo puntare il dito sulle volgarità di un certo milieu! Volevo raccontare la fatica di vivere. Tanto più nel privilegio, nell’agiatezza. Ecco, diciamo che la fatica di vivere, questo titanico tirare a campare, ha una sua bellezza. Persino nel vuoto che attanaglia i personaggi, e che in fondo attanaglia anche me, c’è bellezza. Alla fine mi piacerebbe che passasse questo piccolo pensierino: che la vita è una gran fatica ma che non si può dire che non sia bella».
Mi torna in mente la scena del film in cui il marito della scrittrice progressista nuota in piscina contro una corrente artificiale: nuota, si sbraccia, e non avanza di un centimetro.
Non è un caso se nel film ricorre una famosa battuta di Flaubert. Erano gli anni febbrili della Bovary quando il giovane Gustave confessò all’amante il desiderio di scrivere un «romanzo sul niente». Avrebbe dovuto attendere un’altra quindicina d’anni, e alla fine quel romanzo l’avrebbe scritto: L’educazione sentimentale. Quello sì che è un romanzo sul niente. La storia di una non-vita. Un libro stagnante (come le nostre vite), che ancora oggi fatica a trovare un pubblico: non fa piacere a nessuno immedesimarsi in un individuo così sprovvisto di qualità e ambizioni, che frequenta solo persone come lui.
«Il cazzeggio è sottovalutato» chiosa Sorrentino ridendo.
Sei un nichilista?
«Credo di avere una tendenza nichilista che cerco di tenere a bada. In questo film c’è molto di me. Finisco con l’annoiarmi di tutto ciò che è profondo. Distrarmi è una delle cose che mi viene meglio. Quando sono solo e lavoro riesco a concentrarmi, ma nei rapporti sociali sono vago e superficiale. Temo l’intimità del rapporto a due. La triangolazione mi consente di scappare».
Eppure sei uno stacanovista.
«È come se incanalassi tutte le risorse nel lavoro. Il dopolavoro, per me, è solo calcio e cazzeggio. Idealmente sono rimasto seduto sul muretto sotto casa su cui passavo le giornate da ragazzo. Lì nessuno si prendeva seriamente. Anzi la sola occupazione era trovare un nuovo modo per prendersi gioco dell’altro. E neanche in famiglia eravamo troppo seriosi. Media borghesia. Un padre bancario. Pochi libri. Il cazzeggio era una grande risorsa».
E ora il lavoro ti salva dal cazzeggio?
«O forse il cazzeggio mi salva dal lavoro, chissà...».
E durante il lavoro ti capita di cazzeggiare? «Vorrei farlo di più».
Per esempio?
«Quando scrivo i dialoghi spesso mi vengono in mente calembour demenziali. Mi piacerebbe schiaffarli nei film. Purtroppo, per darmi un tono, tendo a censurarmi. Per questo amo tanto i fratelli Coen. Loro non si censurano. Si abbandonano alle divagazioni. Sono eccitati dalla stupidità e dall’insensatezza».
Vorrei rassicurare Sorrentino: La grande bellezza non è un film magnifico nonostante i suoi difetti. È un film magnifico in virtù dei suoi difetti: squilibri, divagazioni, false partenze, volgarità, avanspettacolo, scorciatoie retoriche, sentimentalismi...
Sei attratto dalla volgarità?
«La parola "volgarità" non mi convince, e non mi piace. Più che altro mi attrae lo squallore. Ogni tanto sono tentato di gettare un occhio giudicante e censorio sulla volgarità, ma questo non avviene mai con lo squallore. Lo squallore mi commuove. Nasconde sempre un dolore, una malinconia. Non c’è niente di amabile nella volgarità tout court, che so, Bossi in canottiera e bretelle. Mentre le scene che mescolano squallore e tristezza m’inteneriscono. Forse perché mi riguardano. Sento che potrei esserne l’ignaro protagonista».
Uno dei colpi di genio de La grande bellezza è che Jep Gambardella, a dispetto delle apparenze e del suo ruolo in società, è un uomo buono, a suo modo premuroso. È come se l’idea della propria miseria lo spingesse a guardare gli altri con misericordia. L’indolenza, la passione nel dissiparsi non sembrano provenire dalla paura del fallimento, bensì dall’intuizione della propria irrilevanza e della gratuità della vita. Come tutti i veri cinici Jep è un sentimentale in pensione. Come tutti i veri moralisti Jep è un immoralista. Ecco perché i sodalizi di Jep sono così memorabili: i duetti mattutini (si fa per dire) con la domestica; gli affettuosi pasti con la direttrice della rivista di gossip per cui Jep lavora; le ciarle insensate con il marito della donna amata; le scorribande notturne con la spogliarellista (una Ferilli in forma magnanesca). Persino prima di umiliare pubblicamente la scrittrice progressista, Jep la mette in guardia almeno un paio di volte (per inciso, si tratta di un monologo che, per intensità e disperazione, non è secondo a quello finale de L’uomo in più). Toni Servillo è il più grande attore italiano vivente perché è capace di questa pietà. Il suo Jeb Gambardella è una specie di Lebowski: uno che sta lì per riscattarci tutti. Da qui l’eloquenza impareggiabile, una sentenziosità degna di Oscar Wilde. Jep parla in nostra vece. Siamo contenti che almeno lui sappia cosa dire.
«Hai presente quando qualcuno ti dice una cosa che ti prende in contropiede? Là per là non sai che rispondere. Poi non fai che ripensarci. Te ne vai a letto tutto incazzato ed ecco che finalmente, a bocce ferme, la battuta arriva. Ti maledici per non averci pensato al momento giusto. Ecco, a me piace mettere in bocca ai miei personaggi la risposta perfetta. Sai perché adoro Céline? Perché lui ha sempre la battuta definitiva. È vero, questo nella vita avviene di rado, ma perché non farlo avvenire al cinema?».
Raddrizzare le gambe storte della vita: una delle ragioni sociali dell’arte. L’arte ti offre la seconda chance che tutti invochiamo. E ti permette di lavorarci su in santa pace.
A giudicare dai protagonisti dei tuoi film direi che te la intendi bene con individui a dir poco ambigui... Da Tony Pisapia, passando per Andreotti fino a Jep Gambardella. Non mi pare che nessuno si segnali per civismo e dirittura morale.
«Quando devo scegliere il protagonista di un film la sua moralità non mi interessa, e neppure la sua fedina penale. Di norma mi interessa chi sa fare veramente bene una cosa».
E Andreotti, cosa sapeva fare?
«La capacità di Andreotti di gestire il potere è, almeno in Italia, tutt’ora ineguagliata. Certe forme di furbizia sono talmente sofisticate da sfiorare il talento e l’intelligenza».
Paolo Sorrentino parla con la stessa cadenza del suo Jep. La «erre» blesa, svogliata e strascicata, mi ricorda un vecchio amico di mio padre, un avvocato napoletano frequentatore indefesso di circoli nautici, ironicamente ribattezzato dai suoi sodali «Il cavaliere del lavoro». Un fancazzista di professione che sembrava uscito da una svolazzante pagina di Ferito a morte. Del resto, che Dudù La Capria sia il santo patrono di Sorrentino lo capimmo dalla prima scena del suo film d’esordio, L’uomo in più, spudoratamente ispirata al famoso incipit di Ferito a morte. E lo si comprende ancor più oggi lasciandosi andare ai molli deliqui de La grande bellezza: più partenopei che romani. La nostalgia struggente del tempo perduto. La sensazione terribile di non essersi goduti fino in fondo tutta la felicità disponibile. Il cuore si gonfia di commozione e non sai nemmeno il perché.
I soffitti di casa Sorrentino sono alti, imponenti. Mi ha accolto nello studio dalle cui finestre si gode uno scorcio di cielo alle prese con un burrascoso maggio romano. La Roma de La grande bellezza è dannunziana, quella de Il piacere: tra Barocco e Neoclassicismo. La Roma fatta apposta per incantare i non-romani.
«Ho provato a fare il contrario di quello che fa Woody Allen nei suoi ultimi film. Lui ha un’immagine preconcetta di una città, costruita su un immaginario cinematografico codificato. Che lui riproduce pedissequamente. Un’analoga accusa mi fu rivolta, soprattutto dai critici americani, per This must be the place. Più di qualcuno lo accostò a Paris, Texas di Wenders. E dire che quando iniziai a girare mi ero detto: non devo fare gli errori di Wenders. Evidentemente sia io che Wenders avevamo visto poca America e troppi film americani. Con Roma no. Almeno di questo sono certo: il mio sguardo su Roma non è viziato dal cinema. Se non da Fellini, naturalmente. Hai presente quando, ne La dolce vita, Mastroianni e la Ekberg si inerpicano sulla scala elicoidale che conduce alle campane della chiesa? Ecco, per me quello è il luogo più misterioso dell’universo».
È per colpa di Fellini allora se nel film ci sono tutti quei prelati? Gli chiedo. Io, ad esempio, sono romano: la mia famiglia, per causa di forza maggiore, è qui da qualche secolo, e ti assicuro che a Roma i preti non ci sono più.
«Ma scherzi?», ride. «Sono ovunque. Proprio ieri ero qua sotto sullo scooter: una decina di preti in bicicletta, con tanto di tonaca e di cappello circolare, ostruivano il passaggio. Una scena degna di De Sica. Vivo da qualche anno in questa città e mi sembra immensa e misteriosa. Ci sono luoghi nel centro storico — chiese, piazzette, vicoli — che, pur essendo antichissimi, sembrano completamente privi di identità, svincolati dal contesto come la lounge di un aeroporto. Non conducono da nessuna parte. Sono disabitati. Non servono a niente e a nessuno. Capisci quanto tutto questo sia eccitante per chi fa cinema! Insomma come vedi il mio sguardo su Roma è provinciale. La parrucchiera del Minnesota in vacanza a Roma in confronto a me è una donna di mondo, una spregiudicata».
Da qui allora il passatismo? Lo sguardo ostinatamente rivolto al passato?
«Sai, mi è rimasta impressa la risposta che diede un grande scrittore (non ricordo più quale) a chi gli chiedeva perché scrivesse libri. "Cerco il padre" fu la risposta. Si tratta di una sintesi perfetta del mio lavoro. È vero, sono un nostalgico. Il presente non mi interessa, non mi smuove. Provo nostalgia per un’epoca che non ho vissuto. Forse perché ho perso mio padre quando avevo solo sedici anni. Tutto quello che faccio è un tentativo di conoscere mio padre nella deprimente consapevolezza che non ce la farò mai».
Alessandro Piperno