Cristina Taglietti, la Lettura (Corriere della Sera) 09/06/2013, 9 giugno 2013
TRE STORIE CHE NON RIESCO A SCRIVERE
Per Niccolò Ammaniti il momento è sempre delicato. Scrivere è una questione complessa che coinvolge sensi di colpa, depressione e felicità in ugual misura e non conta che il suo ultimo libro, il romanzo breve Io e te, abbia venduto 800 mila copie e la raccolta di racconti intitolata appunto Il momento è delicato sia arrivata a 200 mila. «Ho delle storie che mi porto dietro dall’inizio — racconta nella sede romana dell’Einaudi — sono tre o quattro che mi girano in testa continuamente. Ci lavoro per un periodo, penso che siano le mie storie definitive per cui se faccio quelle, dopo posso anche smettere. Poi, per una cosa o per l’altra, le mollo e ne comincio una che non c’entra niente».
Perché non riesce a scriverle?
«Perché sono facili da concepire, ma difficili da svolgere. Non so per gli altri scrittori, ma per me è uno dei grandi problemi: la capacità di concepire qualcosa che ti sembra lontano, meraviglioso, ma che poi si rivela orrendo da scrivere. Succede che mi impunto e viene a mancare quella spontaneità che possiede un’intuizione fresca. Le aspettative, sulla lingua per esempio, sono talmente alte che se devo descrivere un tramonto come ho fatto mille volte ci sto sopra tre giorni. Poi improvvisamente ti metti a scrivere un’altra cosa che ritieni poco importante e ti rendi conto che hai descritto tre volte un tramonto e nemmeno hai percepito lo sforzo».
Ma quante sono queste storie?
«Ne ho lì tre da 10-15 anni. Tutti quelli che mi stanno attorno le conoscono perché gliele ho raccontate mille volte. Adesso mi ero messo a lavorare su una ambientata in un futuro post apocalittico, un po’ fantascientifico-distopica, molto complicata, che aveva a che fare con i bambini. Però facevo molta fatica nelle descrizioni. Non mi sentivo abbastanza in confidenza con il lettore, sentivo che al massimo gli potevo offrire qualcosa che avrebbe completato con suggestioni tratte da un immaginario di letteratura, cinema, fiction già visto».
Come capisce che è meglio abbandonare una storia?
«Quando stai scrivendo lavori 24 ore su 24 perché anche se dedichi al libro solo quattro ore, rielabori continuamente la tua storia, anche quando vai a pagare le bollette. Lavori sempre, ti svegli di notte, magari in preda all’angoscia, poi la mattina ti alzi e hai voglia di riprendere là dove avevi lasciato. Invece quando scrivi qualcosa che non ti piace sei come un impiegato. Smetti e non ci vuoi più pensare fino a quando riapri il computer e ti trovi davanti quella specie di muro».
Quindi la storia distopica l’ha abbandonata?
«Forse la trasformerò in qualcos’altro, non so, una sceneggiatura...».
E nel frattempo?
«Ne ho cominciato un’altra, che inizialmente mi sembrava molto improbabile. Me l’avevano chiesta per un film, l’ho pensata in poche ore nell’ansia di dare una risposta al regista. Doveva essere una tipica storia italiana per un film che non costasse molto. Me la sono trovata tra le mani e mi sono detto: ma io questa me la voglio tenere, speriamo che non gli piaccia. E infatti non gli è piaciuta».
Sarà il prossimo romanzo?
«Sì, spero che esca l’anno prossimo. È ambientata a Roma, ai giorni nostri, in due appartamenti nello stesso palazzone di periferia. C’è un incontro tra una ragazza di 26 anni e un vecchio che non è quello che sembra. Ci sono risvolti horror, imprevedibili, c’è un twist che mi piace».
Come nasce?
«Mi sono sempre interessate le grandi strutture, i palazzoni metropolitani con dodici scale, i formicai urbani. Poi mi colpiscono i fatti di cronaca per cui una persona normale improvvisamente, in modo eclatante, svela a tutti una sua perversione, una sua pazzia. In grandi agglomerati umani i comportamenti da fuori si somigliano, anche se ognuno ha una sua specificità che dall’esterno non noti. Qui ci sono due storie vicine che solo per caso entrano in contatto. A me piace mettermi lì a osservare».
Quando si capisce che la costruzione del romanzo sta funzionando?
«Te lo dicono i personaggi. Finché non sono definiti sei tu che li spingi. A me capita soprattutto durante la notte di vederli, di intuire il loro pensiero sulle cose. Allora hai uno scatto di energia, che ti porta avanti. Poi quando sono definiti sono loro che tirano te e tu devi scappare da loro. Io non sono ancora in questa fase».
Qui c’è anche la sua vena ironica?
«Un po’ sì, ma non voglio esagerare, vorrei che ci fossero situazioni leggermente comiche senza personaggi grotteschi, come ho fatto in Che la festa cominci».
La scrittura è una necessità?
«A volte penso che dovrei smettere. Non riesco a dire: basta, non scrivo per un anno. Io sono definitivo, se smetto devo smettere completamente. Il fatto è che sto male quando non scrivo, mi viene un cattivo umore basico su cui galleggio. Poi quando scrivo la gioia è tale che non riesco a condividerla con gli altri. Quindi o sono depresso o sono autistico. Il che è molto difficile anche per chi ti sta vicino. Poi il libro esce, sei contento e hai due mesi liberi in cui puoi fare quello che vuoi».
Che cosa fa quando non scrive?
«Vegeto. Con l’ansia che devo scrivere sto lì e aspetto. Magari mi propongono cose meravigliose come un progetto con qualcuno, oppure andare a presentare il libro in giro per il mondo e io dico no perché devo scrivere. Poi non scrivo comunque e quindi mi dico: ma guarda che stronzo, potevo andare, avrei staccato un mese, non ci avrei pensato. In realtà non fai le cose che potresti perché ti vuoi punire di non lavorare. E ti deprimi ancora di più. Il senso di colpa è stato fondamentale per anni, è quello che mi ha permesso di fare tutto nella vita. Adesso conta un po’ meno, ora quello che mi spinge sono i bei film, i bei libri, quelli per cui provi una sorta di invidia, che ti fanno dire: potrei provare a fare una cosa simile».
Conta anche la pressione dell’editore?
«Non più. Mi sono messo nella condizione di non dare scadenze, non firmo contratti. È il massimo della libertà, ma non sempre è positivo. Avere qualcuno che ti pressa è utile».
Lei ha sempre diviso quasi equamente i suoi libri tra Mondadori e Einaudi. Ma questo sarà il terzo di fila che esce con Einaudi Stile Libero, l’ultimo per Mondadori è stato «Come Dio comanda». Pubblicherà ancora con Mondadori?
«Non credo, non per ora. Penso che continuerò con Einaudi».
Perché?
«Non ci sono ragioni precise. Devo dire che poi questo fatto dei due marchi che contenevano due filoni diversi della mia narrativa è saltato con Che la festa cominci, che forse doveva essere più un libro Mondadori. È successo che amo avere il mio editore a Roma, incontrarlo, confrontarmi. Non ci sono ragioni politiche, legate alla proprietà di Berlusconi, se dovessi fare quel tipo di scelta dovrei lasciare anche Einaudi».
Quali sono le cose più recenti che l’hanno stimolata?
«Mi piacciono le serie tv perché sento ritmi che mi appartengono: i personaggi possono fare qualcosa di non necessario mentre in un’ora e mezzo il film deve chiudere una storia e non ha la stessa libertà. Adesso sto vedendo Top of the lake di Jane Campion, ambientato in un paesino in Nuova Zelanda. Poi Black mirror, inglese: sono miniracconti che potrebbero sembrare scemi ma sono fatti benissimo. È un peccato che in Italia non ci sia questa capacità di fare buone serie tv. A me per esempio sarebbe piaciuto vederne una sul Pd, che rappresentasse questa lotta feroce tra personaggi completamente diversi, di estrazione opposta, poter raccontare amori, odi, alleanze. Tutti vorrebbero fare una serie coi vampiri che non appartiene alla nostra tradizione, mentre potremmo raccontare bene la nostra politica, questa transizione tra il vecchio e il nuovo che si è sviluppata anche grazie alla Rete. Dopo le elezioni mi sembrava che potesse nascere qualcosa, invece ora si è bloccato tutto e bisogna ricominciare da capo».
È tra quelli che pensa che Renzi avrebbe potuto dare la svolta?
«Penso che se si fosse votato Renzi, se si avesse avuto il coraggio di cambiare veramente, di mettersi in discussione, sarebbe stato diverso. Non so se sarebbe stato meglio, però almeno ci sarebbe stato un sussulto di vita. Invece è prevalsa la voglia di conservazione che è ciò che ha fatto sì che il Pd abbia sempre perso».
E il Movimento Cinque Stelle?
«Non so che pensare, capisco che cosa li motiva ma è la loro violenza verbale che mal sopporto, il fatto che ci sia ogni giorno un forma di attacco».
Che cosa ha letto recentemente?
«Canada di Richard Ford: mi ha molto colpito la qualità della scrittura, la sua capacità di immergerti in quelle atmosfere. Poi La verità sul caso Harry Quebert di Joël Dicker che non è scritto molto bene, ma è appassionante. Mi capita di rileggere classici che avevo letto con troppa foga, alla ricerca della conclusione della storia. Oggi li riscopro come se fossero nuovi. Per esempio I Buddenbrook, L’isola del tesoro, Il grande Gatsby. Adesso sono alle prese con i romanzi di Simenon, non quelli di Maigret: gli altri. Mi piace molto la chiarezza nella costruzione dei personaggi, nella descrizione dei luoghi, degli ambienti, dell’odore delle cose, che riesce a fare con pochissimi tratti. È stata una grande fonte di ispirazione per il mio libro, anche se io sono molto più carico, più ridondante e non riuscirò mai a ottenere quella meravigliosa semplicità».
Nel film di Sorrentino «La grande bellezza» un personaggio dice: «Proust è il mio scrittore preferito. Ma anche Ammaniti», battuta che dovrebbe sintetizzare l’attitudine di un certo ambiente romano pseudointellettuale.
«Non l’ho visto ma lo andrò a vedere, anche perché mi chiamano tutti, mi dicono: ma ti prende in giro o, in fondo, è una cosa carina?».
Cristina Taglietti