Sandro Veronesi, la Lettura (Corriere della Sera) 09/06/2013, 9 giugno 2013
GIANNA NANNINI. IL MIO POP A SQUARCIAGOLA
Partiamo da Elsa Morante — dall’ispirazione che hai dichiarato di avere tratto dalla lettura dei suoi libri.
«Io leggo poco, questo va detto. Però leggo, perché leggere mi allarga la visione, e a volte mi prende il trip, soprattutto se in quello che leggo c’è qualcosa che riesco a vedere, com’è successo con la Morante. Per dire, son riuscita a leggermi La Presenza della voce di Paul Zumthor, che è una roba assolutamente tecnica, accademica, perché per me in quel modo di scrivere c’era della poesia visiva. Elsa Morante però è stata un po’ una chiamata, non so come altrimenti definirla perché, insomma, andare a riprendere Il mondo salvato dai ragazzini, così, un giorno, e poi anche La Storia, tanti anni dopo averli letti la prima volta, e trovarci tutto ciò che mi ha ispirata per Inno, è stato qualcosa di quasi miracoloso. Era un po’ come leggere una Bibbia del dolore, per me, perché lei sul dolore ha detto molte cose che somigliano a quello che provo io, che volevo comunicare io — qualche parola l’ho anche presa pari pari, devo confessarlo — e quindi mi ha aiutata enormemente a far girare meglio il disco. Soprattutto mi ha aiutata a capire meglio quello che stavo dicendo».
Ecco, il dolore. A me pare che il rumore di fondo del mondo, ormai, spinga verso una costante rimozione del dolore, come se il dolore fosse solo male, e come se fosse possibile scansarlo. Questa, avendo figli, mi sembra una cosa molto insidiosa, da correggere, per quanto possibile, nell’educazione che ci si sforza di dar loro; perché non pensino di poter vivere anestetizzati, al riparo dal dolore. Tu che ne pensi?
«Sono d’accordo, perché poi così si crea l’altro sintomo che è la paura, no? E sulla paura ci giocano tanto, per farci fare quello che vogliono. Io al dolore ho dedicato un intero album: potevo chiamarlo Inno al dolore, davvero, proprio per celebrarlo. Fa male, e allora io lo celebro, per sentirlo ancora di più, fino in fondo. Se non fossi stata così male non avrei provato quell’emozione che ha generato tutto il lavoro. È una grande energia, il dolore. Una grande vibrazione».
Tu ti ricordi quando l’hai scoperto il dolore?
«Molto è stato quando ho avuto l’incidente alle dita, mentre facevo i biscotti in pasticceria dal mio babbo. Lì è stato un dolore fisico terribile. Avevo diciott’anni e mi ero già fatta male, ovviamente, in tutti i sensi — ma quell’incidente, anche per via della sua gravità, è stata proprio una scoperta, come scoprire una melodia. Quel dolore ha cambiato la mia vita, letteralmente. Lì di energia ne è venuta fuori parecchia: mi ha dato il tragitto, mi ha dato la ferrovia — una ferrovia di sangue che mi ha portata a Milano. Ero al quinto anno di pianoforte e anche con le dita mozze, con quel problema in più, riuscii a passare l’esame — e così è sempre stata un po’ tutta la mia vita, da lì in poi. Io ora so che sono brava quando ho ostacoli durissimi da superare, e quell’incidente, quel dolore, sono stati la prima esperienza che me l’ha fatto capire».
Senti, tu lavori molto su un’impronta rock, ma per me la chiave del tuo successo sta nella tua straordinaria carica pop. La componente rock secondo me si concentra quasi tutta sulla longevità, perché il rock dura, e il pop no, si esaurisce di continuo, non fa che morire. Penso a icone pop come Kim Carnes — tra l’altro, una voce pazzesca: durano una stagione e poi, «pop», scoppiano come bolle. Tu invece stai durando da trent’anni, e questo ti consegna alla tradizione del rock. Ma la musica, la tua presenza, il corpo, la voce, le melodie — non sono mica tanto rock...
«Senti, il rock in Italia non esiste. Non è nella cultura italiana. Se lo si considera come musica popolare allora è un calderone e ci si mette tutto, ma se lo consideri proprio come tradizione musicale non esiste — è roba americana, anglosassone. Però la musica pop negli anni Settanta-Ottanta, quando sono uscita io, era un tale troiaio, uno schifo tale, che uno era costretto a difendersi abbracciando il rock. Era un atteggiamento, più che altro, un look, un modo di distinguersi dall’onda scadente del pop di allora. Detto questo, io sono sempre stata pop, eccome — che per me vuol dire sostanzialmente venire da dove venivo, cantare le radici. Ascoltavo Janis Joplin, i suoi dischi per me sono stati un modo di allenare la voce, di orientarla; ma quando incontrai Conny Plank mi disse "sai, tu sei un’altra cosa, lasciala stare Janis Joplin. È americana. Tu sei italiana, hai altre radici, e poi ricordati: ti piace il blues? Ecco, ogni paese ha il suo blues". E io ho pensato, cazzo, è vero. Quindi non ho più sprecato energie nel prendere a prestito vestiti vocali dagli altri, e ho cominciato a sperimentare su me stessa, per conoscere la mia identità — ma mi è toccato andare in Germania, per farlo, perché in Italia ti sputavano in faccia se volevi fare quelle cose: dovevi fare per forza progressive rock o i R.E.M. Del resto nella nostra cultura musicale oltre all’Opera non è che ci sia molto. C’è il folk, certo, ma se facevi un pezzo folk negli anni Settanta-Ottanta ti denigravano. Se usavi un mandolino ti sparavano. Sai che quando ho fatto Ragazzo dell’Europa la gente mi prendeva per il culo? Venivano lì col piattino, perché c’erano i mandolini, perché Conny Plank ci ha messo una rete di mandolini col synth. Ma la strada era quella: cercare di usare questa voce nera che ho — Conny la chiamava "voce nera naturale" — legandola alla tradizione italiana, cavalcando l’onda della melodia».
Ecco, ecco, su questo io ho una parola che volevo sottoporti, che mi sembra abbia molto a che fare con te. La parola è «squarciagola».
«Squarciagola è bellino, mi piace».
E certo che ti piace. Tu sei lo squarciagola. Perché di solito lo squarciagola è quando perdi il controllo, no? E invece tu, al contrario, sei, o dai l’impressione di essere, molto più in controllo quando vai a squarciagola. È vero o no?
«Lo squarciagola viene dal punk, vuol dire che non controlli e nemmeno concepisci il concetto di controllo: spingi fin dove puoi spingere — ma sono sempre le frequenze che hai sotto a darti la frenesia di cantare in quel modo. La mia voce, adesso, mentre parlo, fa schifo: perché non reagisco a nessuna frequenza. Se sotto ci fosse una musica e io parlassi sopra quella musica, già la mia voce sarebbe migliore. La mia voce è sempre una reazione: a seconda di quello che le dai, reagisce. Se squarciagola vuol dire entrare dentro le frequenze e aprirsi il varco per andare oltre, allora sì, è roba mia».
Quali sono i pezzi che ti piacciono più in assoluto? Degli altri, intendo.
«Le più belle canzoni del mondo per me sono due: My way nella versione dei Sex Pistols, che m’ha sempre ispirato e al mio funerale voglio quella canzone lì; e No potho reposare, che è una canzone sarda, meravigliosa, di un anonimo, cioè non si sa chi l’ha scritta, e che è stata cantata da Andrea Parodi, dai Tazenda, da Maria Carta».
La prima volta che ti ho incontrato mi ha molto colpito il fatto che tu mi abbia raccontato un fallimento, quello con Steve Albini. Ti va di raccontarmelo di nuovo?
«La storia comincia in aereo. Avevo questo appuntamento con Corrado Rustici a New York, ma io non volevo fare il disco con lui, volevo farlo con Steve Albini. Il mio manager però non aveva voluto darmi il suo numero, perché era troppo underground, e non voleva che lavorassi con questi indipendenti, ma io pensavo che Kurt Cobain aveva una voce tipo la mia, che rompeva le frequenze — a squarciagola, come dici tu —, e perciò volevo fare il disco con Albini. Stiamo parlando degli anni Novanta, aveva appena prodotto In Utero: era una vera star, era quasi impossibile incontrarlo. Ora magari non è più così famoso, ma allora era un mito. Sperimentava sempre, tutto, e correva dietro ai suoni».
A proposito, lo sai come fece Albini a registrare «In Utero» in soli quindici giorni? Lo racconta Dave Thompson nella sua biografia di Cobain. Dice che nel planning giornaliero, dopo voci «sveglia», «colazione» e «prima sessione di registrazione» inserì la voce «dar fuoco a Dave Grohl». Bastò questo perché quei tre pazzoidi rispettassero il planning come scolaretti. Alla fine Grohl non aveva più un vestito sano, ma il lavoro filò spedito fino alla fine senza ritardi.
«Ah, fece così? Ganzo, non lo sapevo. E insomma, volevo lui ma non sapevo proprio come trovarlo. E però, mentre sono sull’aereo, manco a farlo apposta, apro questa rivista — "Tutto", mi pare si chiamasse così — e in un articoletto leggo che una band siciliana che si chiama Uzeda è stata prodotta da Steve Albini. Cazzo. C’è un riferimento, nel pezzo, col numero di telefono di un certo Nuccio, e appena arrivo a New York vado al ristorante Amici, dove andavo sempre, e chiamo questo Nuccio, in Sicilia, da un telefono a monetine. Plin, plin, plin, a nichelini. "Pronto, sono Gianna Nannini". "Chi?" — e parte una commedia perché lui pensava fosse uno scherzo, e continuava a dire che non poteva crederci, che era come se gli avesse telefonato Ligabue, e io che gli ripetevo di essere la Nannini, e Ligabue non c’entrava niente. Alla fine riesco a dirgli che vorrei conoscere Steve Albini, se mi dà una mano a rintracciarlo, e lì son subito casini: "No, non posso, bisogna che parli con Agostino", cioè il band leader, e io "Ok, fammi parlare con questo Agostino", ma Agostino non c’è, e devo richiamare dopo un’ora. Richiamo, e parlo con Agostino che mi fa un sermone di due ore mentre io pago la telefonata intercontinentale coi nichelini, per dirmi che sono troppo mainstream, troppo commerciale, che è bello che chieda di Albini, ma lui non può dare il suo numero a tutti, non è che se lo chiama Ligabue lui gli dà il numero, e io daccapo a dire che non sono Ligabue, e insomma alla fine mi dice di richiamare l’indomani che nel frattempo cercherà di contattarlo e sentire cosa ne pensa. Il giorno dopo lo richiamo e invece mi dice che Steve è tutto contento di incontrarmi anche se sono mainstream e mi dà il suo numero. Io, sempre lì nel ristorante di New York, sempre coi nichelini, chiamo Steve Albini a Chicago, gli dico che ho lavorato con Conny Plank e lui, impazzito per Conny Plank, che era già morto da un po’, mi dà un appuntamento per l’indomani.
«Sennonché mi viene la febbre a quaranta, ma prendo lo stesso l’aereo e vado a Chicago apposta, e mi presento la mattina all’indirizzo che mi è stato dato — ma Steve Albini non c’è. Allora lo richiamo: "Ah, sì, scusa, avevo una session, stavamo registrando, non ce l’ho fatta a venire però guarda, se puoi restare ci vediamo a pranzo a questo ristorante giapponese". E mi dà l’indirizzo. Vado a quell’indirizzo e stavolta non c’è proprio il ristorante, nel senso che è chiuso per lavori. Io penso che allora forse questo mi sta pigliando per il culo. Lo richiamo e gli dico "Senti Steve, se non vuoi vedermi non c’è problema, basta che me lo dici", e lui "No, no scusami, davvero, è successo questo e quest’altro, non è stata colpa mia, certo che voglio vederti", e mi dà un altro appuntamento per l’indomani, sempre a pranzo, sempre in un ristorante giapponese perché lui è fissato coi ristoranti giapponesi. Così resto un altro giorno a Chicago, l’indomani vado al ristorante e stavolta arriva questo ragazzino con la giacca di pelle e gli occhialini e mi dice "Sono Steve Albini". Lì per lì io non ci credevo nemmeno, perché io non l’avevo mai visto in faccia e non mi aspettavo un ragazzino, ma, insomma, finalmente parliamo, e quando gli dico che vorrei fare un disco prodotto da lui mi fa: "L’hai sentita P. J. Harvey? La conosci?". E io: "Sì, certo che conosco P. J. Harvey, e mi piace pure". E lui: "Ecco: io le ho prodotto il primo album, con la band, ma poi lei ha voluto un album senza band e non l’ho prodotta più. Perché io non sono bravo a registrare se uno non ha la band. Di te mi piace molto la voce", mi fa, "però io non riesco a fare un disco senza una band". "Eh ma io la band la trovo", gli dico "prendo gli Uzeda, chiunque", e lui allora mi dice che ne riparleremo quando avrò trovato la band. Rientro in Italia, vado in Sicilia a incontrare gli Uzeda e a due di loro propongo di fare la band insieme, e questa band la facciamo davvero, una band che è durata dieci anni — ma a lavorare con Albini non ci sono mai riuscita. È rimasto quel viaggio pazzo a Chicago e nient’altro».
Per finire, due parole su queste «cose nascoste», su questi «segreti» che saranno il tema della conversazione che faremo alla Milanesiana. È un tema fertile, ricco di nettare. Cosa ti fa venire in mente?
«Mi viene in mente Ninna nein, quando dico a mia figlia "sei diventata grande e non ti volti indietro, metti via l’amore nel luogo più segreto. Sarà per sempre amore quello che avrai da me, ricorda che a nessuno l’ho dato come a te" — che tutte le volte che la canto mi metto a piangere come una scema. Penso alle cose più belle, ecco, quei momenti felici che si vivono per miracolo e c’è il rischio che gli altri ce li sciupino, perché la felicità è fragile. Devi tenerli segreti, insomma. Il fatto stesso che siano rivelati li sciupa, e allora li nascondi, per difenderli. Le cose segrete sono il nocciolo della felicità. Sono l’anima».
Sandro Veronesi