Roberto Satolli, Corriere della Sera 09/06/2013, 9 giugno 2013
LA SCOMPARSA DEL DOTTORE
Racconta Claudio Rugarli, autore del Trattato di medicina interna su cui hanno studiato le ultime generazioni di medici italiani, che una signora, entrando nel suo studio, gli aveva intimato: «Lei va bene per il fegato?» «Non l’ho ancora dimenticato» era stata la garbata risposta. «Sono ancora un dottore» sarebbe stata una replica altrettanto buona, poiché l’aneddoto è riferito da Giorgio Cosmacini, medico, storico e scrittore, nel suo ultimo saggio La scomparsa del dottore (Raffaello Cortina). Più che certificare un’estinzione, forse avvenuta da tempo, la folgorazione del libro è additare un’assenza che era sotto gli occhi di tutti, ma della cui realtà e origine è bene prendere contezza.
Che cosa ci manca, in realtà? Di medici ne abbiamo
sin troppi, dopo che la loro schiera si è evoluta in una miriade di sottospecie, ciascuna capace di sapere quasi tutto su quasi nulla, tanto ristretto è ormai il raggio di azione di ogni specialità.
Il «dottore» non si trova più perché può esistere solo nella testa
del paziente, ed è un riferimento esistenziale che dura una vita (magari si eredita dalla famiglia)
e la cui competenza essenziale è proprio la conoscenza personale nel tempo. Dunque forse il dottore non c’è più non solo
o non tanto perché l’università non lo forma; l’organizzazione del servizio sanitario lo contempla, nella figura del medico di medicina generale, ma non lo valorizza; lo strapotere delle specialità, in ospedale
e fuori, gli tolgono spazio e credibilità.
Tutto vero. Però al fondo il «nostro» dottore è scomparso perché noi abbiamo rinunciato a sceglierlo e a costruirlo nel tempo, come rapporto solido
di confidenza e comunicazione. Soprattutto le ultime generazioni, che un dottore non lo hanno mai conosciuto e non possono averne nostalgia,
è bene che sappiano che un tempo è esistito e potrebbe esserci ancora, per non cadere vittime,
anche quando è in gioco la salute, di un consumismo che tutto divora.
Roberto Sarolli