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 2013  giugno 09 Domenica calendario

LA (DURA) MODERNITA’ DEL CAPITALISMO

Caro direttore, per «far sopravvivere alla crisi un capitalismo moderno e moderato», bisogna «regolare seriamente la finanza», sostiene Salvatore Bragantini (Corriere della Sera, 6 Giugno 2013). La finanza sarebbe all’origine della catena causale che rischia di portarci al disastro.
Ma la finanza, chi è? Che faccia ha? Ha gli occhi del miliardo di asiatici che sono usciti dalla povertà più feroce, dei milioni di immigrati negli Stati Uniti e nel Nord del mondo? La finanza è quella a cui tre presidenti americani, da Clinton a George W. Bush, hanno chiesto di soddisfare in ogni modo e per tutti il sogno di avere una casa propria? O è quella che accumula nei forzieri di Pechino trilioni di debito americano? È da lì che bisognerebbe incominciare per obbligare i Paesi in surplus a spendere, come Bragantini vorrebbe: e chi mandiamo a chiederglielo?
I «Paesi prima inesistenti» Bragantini all’inizio li cita: ma poi li dimentica. Come dimentica le gigantesche trasformazioni tecnologiche, che hanno cambiato che cosa produrre e come, come comunicare, come muoverci, come consumare, come informarci. È ben reale, questa economia: chi l’ha finanziata? Secondo il Financial Times di giovedì, la Google di Larry Page sarà quella che fu la General Electric di Edison nell’era della elettrificazione, e Amazon la nuova Stears & Boebuck, ci inonderanno di prodotti nuovi e ci offriranno nuovi modi di acquistarli. L’America diventa esportatore netto di petrolio, Israele potrebbe diventare energeticamente autosufficiente, cambia la geopolitica mondiale: chi l’ha finanziato? Il capitalismo, oggi come sempre, non è moderato, è una smodata procedura per la scoperta.
Il welfare, certo: era facile quando i vecchi morivano presto e i giovani lavoravano più a lungo, non può più essere lo stesso oggi che costa caro far vivere i vecchi più a lungo. In un decennio potremmo vincere la guerra contro il cancro: colpa della finanza aver finanziato quella ricerca? In un decennio potremmo vedere la fine della povertà: non è welfare nel senso più proprio del termine?
La scuola, certo: era rassicurante entrare nella scuola Fiat a 15 anni e uscirne da «anziano Fiat» nei necrologi della Stampa. La scuola (statale) è certamente in ritardo nel dare le competenze di cui c’è bisogno: colpa della finanza? Esiste la formazione online, in quantità smisurata, anche di qualità: ed è perlopiù gratuita, si sostiene con gli strani meccanismi della finanza.
Le tasse, certo. È possibile che le leggi fiscali di una volta (quando il nemico era il Sim, lo Stato imperialista delle multinazionali) oggi vadano riviste: ma mi sembra un problema americano a cui non riesco ad appassionarmi. Ma quando a produrre profitti sono gli algoritmi, quando per migliorare il bilancio energetico a casa propria si comperano (l’ha fatto Google pochi giorni fa) energie rinnovabili in Svezia e Sud Africa, fare una contabilità per Paese è un po’ complicato. Una cosa è certa, mai una tassa risparmiata ha danneggiato un consumatore, molto sovente è finita nelle sue tasche: grazie a quella cosa chiamata concorrenza.
Non sono Pangloss, la crescita globale non pareggia il conto delle sofferenze individuali, delle ingiustizie, delle disgrazie. I pericoli sono sovente imprevedibili, alcuni potrebbero perfino estinguerci, la mutazione di un virus, la pazzia di un despota, un errore umano. Ma ci sono pericoli che conosciamo con certezza: i governi hanno conoscenze limitate, e quanto meno ne tengono conto, tanto più ci fanno correre i rischi delle conseguenze inintenzionali dei loro atti intenzionali. Sappiamo con certezza che, a differenza del capitalismo che deve sempre tener presente l’innovazione che può spiazzarlo e la concorrenza che può batterlo, i governi non hanno nulla che li contenga: nessuno che li renda «moderati», nessuno che li spinga a essere «moderni». Chi li fermerebbe, se venisse cancellata la possibilità per un Paese di organizzare i propri rapporti sociali, di utilizzare le proprie risorse, di gestire la propria economia, in modo da poter fare un po’ di concorrenza fiscale?
Spendi e tassa sembra una ricetta semplice, ma non ha mai funzionato. Per una ragione semplice: che per spendere bisogna che ci sia qualcosa che valga la pena di essere comperato, e per tassare che ci sia dell’utile che è stato prodotto.
Franco Debenedetti