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 2013  giugno 09 Domenica calendario

2 articoli – LETTA CHIUDE IL CASO RENZI «NON SIAMO DUE GALLI NEL POLLAIO» — Si danno «un cinque» sulla soglia di Palazzo Vecchio, ad uso e consumo delle telecamere e di chi li vede già pronti a pedalare sullo stesso tandem

2 articoli – LETTA CHIUDE IL CASO RENZI «NON SIAMO DUE GALLI NEL POLLAIO» — Si danno «un cinque» sulla soglia di Palazzo Vecchio, ad uso e consumo delle telecamere e di chi li vede già pronti a pedalare sullo stesso tandem. Gigioneggiano sulla rivalità tra fiorentini (Matteo Renzi) e pisani (Enrico Letta), con annessa visita alla Torre di Arnolfo e inevitabili confronti d’altezza con quella (più bassa e pure pendente) di Pisa. Per non parlare poi della fede calcistica: con il sindaco di Firenze che regala al premier, non una, ma tre maglie della Fiorentina dedicate ai tre figli del collega di partito e capo di governo (milanista perso, ma che comunque fa buon viso). Tanto colore e calore tra Renzi e Letta - entrambi lanciatissimi lungo traiettorie politiche per molti destinate alla collisione - per coprire la sostanza di una visita dal menu rigorosamente politico, concentrato sui futuri assetti di un Pd che, se non è da ricostruire, poco ci manca. Due ore insieme a Palazzo Vecchio (poi Letta incontra il governatore della Toscana, Enrico Rossi) consentono al premier di mandare un messaggio chiaro alle varie consorterie che agitano il partito: scordatevi, ragazzi, che io e Matteo si faccia l’errore dei D’Alema e dei Veltroni, eterni duellanti spesso a spese della casa comune. Non lo dice proprio così, ma il senso è quello: «Chi pensa che noi rinverdiremo nel centrosinistra antiche storie di galli nel pollaio, ha sbagliato film». E quanto al rischio di entrare un giorno in conflitto, aggiunge: «Io sono concentrato solo su questa fase politica e declino il mio futuro non in un’ottica personale, ma complessiva». E’ un Letta battagliero e nello stesso tempo guardingo. Al direttore Ezio Mauro, che lo intervista per "La Repubblica delle idee", dice di «non essere tipo da togliersi i sassolini dalle scarpe, se non servono per raggiungere risultati». Poi però, sfoderando un lessico di bossiana memoria, si concede una ventata di celodurismo: «A volte bisogna metterci le palle, è una questione di coraggio». Soprattutto quando si guida «un governo di necessità, nato da una situazione d’eccezionalità, unica alternativa al caos istituzionale: un pertugio dal quale si deve passare, anche se non è giusto parlare di pacificazione e io non mi sento un Togliatti». Una strada impervia e un alleato ingombrante come Silvio Berlusconi. Qui salta fuori la scuola democristiana di Letta: allergico ai frontali. Dicono che sia il Cavaliere il driver che detta la linea all’esecutivo, è vero? Sospiro: «Lunedì (giorno di responsi elettorali per le amministrative, ndr.) ci renderemo conto che non è così e che gli elettori ne sono consci». Ma intanto ogni sentenza sul leader pdl si tramuta in scossoni per il governo. «Non ci sarà alcuna influenza, confido nel senso di responsabilità di tutti i parlamentari, è velleitario alzare bandiere». Quindi nessun braccio di ferro con la Merkel, per dirne una? «Solo battute». E si resta nell’euro? «Uscirne sarebbe un disastro finale». Poi tocca al Pd: e sono dolori. La vicenda del Quirinale, con il doppio siluramento di Marini e Prodi, «è una questione non chiusa» sibila con tono cupo il premier. Che rincara la dose: «Il partito è esploso, ha vissuto una fase drammatica, vorrei sapere chi sono quei 101: guai a far finta che non sia successo niente». Ma è su governo e riforme che Letta si gioca il futuro. Sulla legge elettorale l’orizzonte è da brividi: «Non c’è nessun accordo — ammette il premier —, la distanza tra i partiti è grande. In caso di stallo, l’esecutivo potrebbe intervenire». Per il resto, Letta ci crede: «Non uscirà un mostro, le garanzie ci sono». Rilancia come centrale la riduzione dei parlamentari. E sulla riforma del finanziamento pubblico alle forze politiche, da molti contestata, quasi si arrabbia: «Ho sentito di tutto, ma vorrei precisare che il 2 per 1000 ai partiti è su base volontaria, è tutto trasparente». Francesco Alberti LETTA-RENZI IL PATTO DELLA NUOVA GENERAZIONE - Beppe Fioroni lo ha battezzato con ironia il «patto di Yalta», per «spartirsi il partito e il governo del presente e del futuro». Ma l’intesa siglata ieri tra Matteo Renzi ed Enrico Letta, al di là delle letture maliziose, è foriera certamente di novità per il Partito democratico. «Siamo una squadra», ha detto il presidente del Consiglio al sindaco di Firenze. E ha aggiunto: «Quando ho finito io al governo, tocca a te». I due hanno deciso di giocare insieme la loro partita, ed è evidente che gli altri si innervosiscano, perché capiscono che da ora in poi nel Pd le carte le daranno il premier e il sindaco di Firenze. «C’è una nuova generazione che prova a prendere la leadership della politica e questo è un fatto importante perché invece l’attuale gruppo dirigente del partito è intriso di conservatorismo», ha spiegato Renzi ai suoi. Il primo cittadino ha deciso di fare le cose in grande. È vero che non ha ancora sciolto i residui dubbi sull’opportunità di una sua candidatura, ma ormai sta già pensando addirittura alla squadra: «Voglio portare al Pd gente che fino ad oggi è stata lasciata fuori della porta: sindaci, presidenti di regione, giovani imprenditori. E comprendo che chi è abituato a vedere le cose sempre nello stesso modo, ad andare avanti solo con sindacalisti e funzionari, possa essere preoccupato dall’arrivo di questo mondo nel partito. Ma sarebbe sbagliato avere paura: in politica chi ha paura perde». E non ha di certo timori Letta, il quale, anzi, è convinto che Renzi al Pd «garantisca il governo». Del resto, è proprio dell’attuale esecutivo, oltre che del Pd, che i due hanno parlato ieri a palazzo Vecchio. «Io non voglio fare il segretario per avere nelle mie mani il destino del governo», ha assicurato il sindaco al premier. E ha aggiunto: «Ricorda che sono una persona leale. Non fedele, ma leale». E per questa ragione Renzi ha ribadito per l’ennesima volta a Letta: «Io ti darò una mano». Poi, sempre per lealtà, ha aggiunto: «Però ricordati che il governo durerà solo se funzionerà. È nato da uno stato di necessità, ma si potrebbe trasformare questa situazione obbligata in un’opportunità». Anche su questo Letta e il sindaco rottamatore si sono trovati d’accordo: «Sono io il primo a dirlo — ha sottolineato il premier — vivacchiare non funziona e io non ho nessuna intenzione di vivacchiare». Dunque, Letta ha dato la sua parola d’onore a Renzi che se deciderà di scendere in campo per la segreteria lui lo sosterrà: «Saresti un ottimo leader per risollevare il Pd». Come è ovvio, rimangono delle differenze tra i due. Caratteriali, innanzitutto. E non solo. Letta, per il ruolo che ricopre e il rapporto che per questo ha con Giorgio Napolitano, sponsorizza la Convenzione dei 35 saggi per le riforme, Renzi invece non crede a questo strumento. È convinto che non sia questa la via per raggiungere gli obiettivi più importanti, ma che anzi rappresenti un modo per «prendere tempo» e non fare quei «cambiamenti» e quelle «innovazioni» che secondo lui sono più che mai necessarie. Ma è ovvio che un’intesa totale tra i due non sarebbe possibile. L’accordo raggiunto ieri, però, è già un passo avanti. Prova ne è il nervosismo che ha generato in una fetta del partito. Ora in molti guardano alle mosse di Bersani. Che cosa potrà fare l’ex segretario per sbarrare il passo al sindaco? Nella commissione che deve stabilire le regole del congresso c’è Nico Stumpo, uomo di fiducia di Bersani, nonché ideatore e strenuo difensore delle regole delle primarie che tanto fecero discutere all’epoca del duello tra l’allora segretario del Pd e il primo cittadino del capoluogo toscano. E adesso Stumpo e Bersani pensano di fare il bis: «Potranno votare per il segretario solo quelli che si iscrivono come fu per la registrazione delle primarie della volta scorsa». L’idea di far scegliere il leader addirittura solo ai tesserati è stata abbandonata perché ci si è resi conto che avrebbe sollevato troppe polemiche e proteste in un partito che già ha i suoi bei problemi. Ma non ci sono solo le resistenze di Bersani. Un altro esponente del Pd che non nasconde le sue perplessità è Beppe Fioroni. A lui il «patto di Yalta» non va proprio giù: «Non vorrei che finissimo come l’Europa, che poi, dopo quel patto, dovette aspettare il crollo del muro di Berlino per poter giocare la sua partita». Ma Fioroni non sembra troppo convinto neanche degli altri possibili candidati segretari, come Zingaretti. Per lui sia Renzi che il presidente della Regione Lazio non giocano una partita corretta: «Stanno sfidandosi a chi si intesta la leadership della neonata corrente, che dovrebbe nascere per contestare le correnti. In realtà, questi sepolcri imbiancati sono gli stessi che si arrabbiano se non viene nominato uno dei loro in una commissione o se non ottengono un posto in segreteria. Tutto ciò nasce dal fatto che nel Pd ai valori sono stati sostituiti i valori... bollati: tu fai un piacere a me e io ti sostengo: in fondo su che altro si basa il patto di Yalta siglato ieri a Firenze?». Maria Teresa Meli