Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  giugno 10 Lunedì calendario

GELOSIE, INSULTI, BRAVATE IL LATO OSCURO DEGLI DEI CHE CAMBIARONO IL BASKET

Andò peggio ai dodici apostoli, che si tenevano un Giuda in squadra, o ai cavalieri della tavola rotonda, fra cui si celava quello che trescava con la donna del capo, ma non fu facile sopportarsi neppure fra quei dodici tizi, molto bravi, molto ricchi e molto gelosi, che furono insieme il Dream Team ai Giochi olimpici di Barcellona ‘92. Erano giocatori di basket, parevano rockstar, sommersi in un incessante turbinio di autografi, foto, santini celebrativi. In due parole, la Storia, intorno a partite senza storia.
Passati più di vent’anni, le icone ancora sorridono, dal pantheon degli invincibili. E invece. Michael Jordan stava quieto solo se tutti, ma proprio tutti, lo riconoscevano come indiscusso numero uno. A Magic Johnson bastava giocare a farlo, a patto di poter dire che quella squadra era la “sua”: aveva da poco svelato al mondo d’essere sieropositivo, nessuno lo contrariava mai (in pubblico, in privato meno). «E dategli un microfono, parla sempre lui», sibilò dal fondo Scottie Pippen, fedele scudiero di Jordan. Fedele nei secoli? Macché. Perché perfino lui, apparso anni dopo LeBron James, arrivò a ipotizzare che valesse quanto Michael: e toglietegli tutto, a Mj, ma non la classifica “il migliore di tutti i tempi”. Su cui pure Magic, all’epoca, nutriva qualche dubbio, e Clyde Drexler nessuno («Cos’ha Michael che io non ho?»). Larry Bird, fuori concorso per la schiena a pezzi, s’accontentava di sfregiare tutti con insolenze a sfondo sessuale. Karl Malone non sopportava Charles Barkley, le sue vanterie, le sue birre, le sue uscite notturne, le sue idee ribaltate nel giro di cinque minuti. David Robinson, religiosissimo, non sopportava nessuno di quei senza Dio. E Christian Laettner, l’unico collegiale, era trattato da classico stagista imbranato. Infine, tutti quelli che erano lì avevano congiurato perché non ci fosse Isiah Thomas, e conta poco, come in ogni Idi di marzo, chi vibrò le coltellate fatali (Jordan, la sua, di sicuro sì).
Eppure, perfino per loro, dei e semidei del basket tanto uniti e tanto occhiuti, i due mesi di Dream Team in quel remoto 1992 furono un brano di vita incancellabile. Globalmente inebriante, ora per ora sfiancante, fra palestre d’allenamento, suite di lusso, green del golf, casino, discobar, sigari e vodka nella family room dell’hotel Ambassador, asilo nido di giorno per i marmocchi, bisca per gli stravizi di notte. Così almeno li racconta il libro “Dream Team”, dato alle stampe ora, dopo esserli andati a risentire vent’anni dopo, da Jack McCallum, reporter di “Sports Illustrated” che visse da embedded in prima linea con «la squadra che mai più ce ne sarà una eguale» (Magic dixit).
«Dream Team», il marchio indelebile, nacque proprio su “Sports Illustrated”, che riunì cinque fenomeni per una foto di copertina e l’imprimatur a un’idea («Quanto vi piacerebbe vederli giocare insieme?») che già frullava come progetto in cima al grattacielo della Nba, da quando, a Seul ‘88, una squadra Usa di non professionisti era stata umiliata dai sovietici.
McCallum li sfoglia uno a uno, i dodici, ne descrive abilità cestistiche e caratteri, e disegna poi, per definire gli equilibri del gruppo, la figura del treppiede. Il capobranco è Jordan e gli basta che sia chiaro a tutti. Per quello glielo ricorda strapazzandoli in allenamento, sfottendoli, canticchiando di continuo “Be like Mike”, il jingle che sintetizza le sue miliardarie fortune in pubblicità. Ma Jordan non è il capitano: fatto un passo indietro, ha concesso che lo siano gli altri due. Magic Johnson è sieropositivo, forse ha pochi mesi di vita o forse no, ma intanto parla, sorride, gioca, viaggia, fa affari (e spaventa, pure, chi deve affrontarlo in campo). Larry Bird è prossimo al ritiro, dosa gli ultimi sforzi con disincanto, ma pure a lui fa piacere intascare deferenza e complicità di Magic nell’indissolubile destino d’essere i due che, nei loro fantastici anni ‘80, risanarono la Nba affogata nei debiti e la consegnarono, per imperarvi, a Mj.
Scorrono così sulle pagine i due mesi di un’avventura che srotola quotidiane ripetitività, ma le anima sui profili scolpiti dei protagonisti. Per tutti, il più alto momento agonistico, o l’unica partita vera, sarà un allenamento in famiglia a Montecarlo, in cui nessuno ci starà a perdere. Poi, le avversarie del torneo olimpico verranno puntualmente sbranate, dopo che in campo, altrettanto puntualmente, tutti avranno fatto le foto ricordo col nemico. L’ultima sarà la Croazia, che in finale regge pure con decoro, dopo che nel girone, al suo giovane asso Toni Kukoc, prossimo a passare ai Bulls, Jordan e Pippen hanno riservato una marcatura che pare una lezione, nello stile di una Chicago di qualche decennio prima, perché il ragazzo ha una grave colpa: essere stato assunto in ditta con una paga troppo alta.
Oculate aziende di se stessi, ma anche romantici innamorati del gioco, che resta in cima a tutto, i dodici condenseranno proprio nell’ultima scena degli addii il duplice senso del viaggio. La premiazione con la medaglia d’oro finalmente al collo li coglie con qualche lacrima in agguato, ma ricorda pure loro che, benché la Reebok abbia pagato due milioni di dollari per vestirli su quel podio, ognuno ha i suoi marchi da servire e riverire. E allora sarà una bella bandiera a stelle e strisce ben posata sulle spalle a coprire tutto, l’onore e l’ipocrisia, l’orgoglio e il portafoglio, gli amori e gli affari.