Arianna Finos, la Repubblica 10/6/2013, 10 giugno 2013
ROBERTO HERLITZKA “QUANTE BASTONATE PRIMA DELLA CELEBRITÀ”
ROMA
La grande bellezza di Roberto Herlitzka si chiama Chiara, ed è un’affascinante signora dagli occhi blu che accoglie gli ospiti con un vassoio di cioccolatini e acqua frizzante. L’attico vicino a Villa Ada, Roma Nord, è sobrio, semplice ed elegante come chi vi abita. «Chiara e io siamo sposati dal ’68. Ci conoscemmo all’Accademia, io insegnavo saltuariamente, lei era allieva». Un’unione, la loro, che quest’anno festeggia i 45 anni. A certificare il periodo felice di Herlitzka, 75 anni a ottobre, il Nastro d’Argento alla carriera che gli sarà consegnato a Taormina il 6 luglio. Nell’ultima stagione l’attore è stato protagonista di Il rosso e il blu e ha interpretato due ruoli incisivi in Bella addormentata (lo psicanalista che dispensa tranquillanti ai politici) e La grande bellezza: qui è l’alto prelato esperto di fornelli. «Un ruolo scritto benissimo. Mi dispiace, anche se lo comprendo, che sia stata tagliata una scena che completava il ritratto: quando il cardinale si sottrae ai quesiti spirituali di Jep Gambardella».
Un attore è strumento al servizio del regista.
«Così deve essere. E ciascuno è un direttore d’orchestra diverso. Sorrentino sa creare l’atmosfera, una cornice dentro la quale viene facile esprimersi. Bellocchio sembra non avere rapporto diretto con l’attore. È irraggiungibile, ma ti ispira. In Buongiorno, notte ero Moro. La mia parte è cresciuta poco a poco: quando lui ha iniziato soffermarsi con la macchina da presa su di me più del previsto. Mi sono emozionato e ho approfittato per esprimermi al massimo. È stato un rapporto abbastanza misterioso e decisamente cinematografico».
E il suo misterioso rapporto con la recitazione quando è nato?
«Ero piccolissimo. Ricordo un’operetta del 700. Quando i cantanti vennero alla ribalta con le luci a chiedere l’applauso ho capito che volevo salire sul carro di Tespi. È buffo perché poi io non so ringraziare sul palco, rifuggo le luci e i costumi mi danno fastidio».
A 18 anni ha lasciato Torino per Roma.
«Ho fatto il provino all’Accademia. Sono diventato allievo di Orazio Costa a cui devo tutto. Ti spingeva oltre i limiti, ricordo un San Francesco televisivo in cui io gli dissi “Dottore, non posso andare oltre i miei limiti” e lui: “Solo se spingi in avanti puoi scoprire quali sono i tuoi limiti”. Quella volta mi sembra di averli spostati in avanti».
Ma lì è iniziata la sua carriera.
«Sì. Ho lavorato con i grandi. Non ho mai frequentato la Dolce vita romana, ma ricordo che fui stupito dalla vivacità intellettuale di quella milanese, che frequentai per un periodo. Il debutto a teatro fu con Enrico Maria Salerno, sostituivo un assente in Sacco e Vanzetti.
Salerno mi aveva totalmente affascinato come attore, come persona non era troppo limpido, ma forse anche per quello, lo guardavo con occhi avidi e lo imitavo. E poi a Milano ho lavorato con Mario Scaccia e Tino Carraro. Sono i ricordi più belli, anche perché avevo vent’anni».
Di ricordi belli ce ne saranno parecchi in una carriera lunga come la sua.
«Sì. Ma ho preso anche tante bastonate. Tante volte in cui pensavo che, dopo il successo di un’opera, ci sarebbe stata una svolta. E invece ho sempre dovuto ricominciare da capo. A teatro ho fatto molto, ma il teatro, come la vita, si esaurisce nel momento in cui lo fai. Invece il cinema resta. E io di cinema ne ho fatto poco».
Quanto è importante per lei l’ironia?
«È la mia arma di difesa, non sono mai sicuro di me stesso. So di avere qualità ma non sono certo di riuscire ogni volta a esprimerle nel ruolo. A volte chiedo io stesso di fare il provino. E, a teatro, non avendo l’arma della bellezza e la figura dell’eroe, mi proteggo con lo scudo dell’ironia».
Ha fatto anche la televisione.
«Sì. Ricordo un giallo a puntate negli anni 70, ero l’antagonista di Alberto Lupo. Diventai famoso: mi arrivavano lettere di ammiratrici e servizi sui giornali femminili, mi applaudivano al ristorante. Poi sono tornato nell’oblio. Di quel film ricordo una scena girata a Londra, davanti a Scotland Yard. Non avevamo i permessi e mi convinsero a entrare nella vera sede della polizia britannica, dato che interpretavo un ispettore. Nell’atrio mi accolse una guardia: “We are making a movie”, provai a spiegare. Lui, era in maniche di camicia, si alzò, si mise la giacca e mi scaraventò fuori».
Lei sembra un attore schivo.
«E invece amo la popolarità e sono narcisista. A teatro ho fatto molto, al cinema non mi sento ancora espresso. Se qualche regista si vuole fare avanti, sono pronto».