Concita De Gregorio, la Repubblica 10/6/2013, 10 giugno 2013
IL CORPO DI EVITA IL MISTERO DELLA DONNA CHE FA PIANGERE IL MONDO
Lei, quella donna, era brutta. Pallida e sgraziata, gli occhi infossati nelle occhiaie, ossuta. Era la donna meno sensuale della terra, dice chi le ha lavorato accanto in uno dei suoi film. Bruttissimi film, lei attrice di quart’ordine: goffa e impalata, una dizione atroce. «Non potevi eccitarti, con lei, neppure su un’isola deserta». E allora Peròn perché l’ha desiderata? «Peròn era un sole oscuro, un paesaggio vuoto. L’altopiano dei non sentimenti. Lei lo avrà riempito dei suoi desideri. Non sesso, desideri».
Lei, quella donna, era fredda e brutale. Anche questo era. Eppure milioni di lacrime si piangono ininterrotte da sessant’anni, ad ogni latitudine. In un teatro decrepito del New Brunswick, ora, c’è un’attrice nera che si traveste da lei con una parrucca bionda e una gonna scampanata, il pubblico di neri siede sulle poltrone di velluto liso mangiando mais per un’ora e un quarto. Quando lei muore piangono, insieme, dentro fazzoletti enormi macchiati di unto e pieni di briciole. Una cantante bianca, nordeuropea, incide l’ultima cover di “Don’t cry for me, Argentina” e in sala di registrazione si deve interrompere il lavoro perché il tecnico singhiozza. Piangono, tutti, il lutto per la perdita di quello che non siamo mai stati. La nostalgia di quello che poteva accadere e non è successo. L’amore mai amato, la libertà mai colta, il riposo dalla fatica mai arrivato, i mille disincontri della vita. Erano lì, a portata di mano, li abbiamo visti ma come quando l’ultima onda ti allontana dall’approdo: li abbiamo mancati. Forse sono stati loro a non vederci: non è una nostra colpa, è una inevitabile sventura. Una fatalità, il destino. Il mistero di “quella donna” — la chiamano così, in tanti, nel suo paese — è questo: l’enormità indicibile di ciò che incarna. Il segreto in questo verbo: incarnare. Portare nella carne. Il corpo di Evita è un’ossessione. Ora che siamo abbastanza distanti dalla storia per vedere oltre la nebbia della politica, dell’ideologia, del furore degli idealismi ecco cosa resta: quel corpo. Evita è santa perché il suo corpo è sacro. Perché ogni corpo è sacro. Ogni corpo, ciascuno di noi, è il tempio del rito fatto di sangue e di sudore, di lacrime e di tendini che Evita ha messo in scena dal suo balcone. Il corpo è l’inizio e la fine di ogni storia, la spiegazione di ogni cosa e la sua causa, la malattia e la cura.
Davanti al padiglione argentino alla Biennale delle Arti di Venezia, all’Arsenale, accoglie il pubblico una giovane donna di origine italiana — moltissimi argentini lo sono, l’Argentina siamo noi: Nicola Costantino. Nicola è nata molti anni dopo la morte di Evita, è un’artista di gran fama, ha lavorato per anni sull’ossessione del corpo mettendo in campo il suo: ha strappato via il cuore di un animale vivo, ha cucito scarpe e borse fatte col calco della pelle umana, ha disteso se stessa sul piatto dell’ultima cena, nuda, dandosi in pasto — letteralmente — ai cannibali dell’arte. Ha fatto un sapone a misura del suo busto, perché tutti potessero consumarla lavandosi. Si è travestita entrando nei quadri altrui, Vermeer e Velázquez: incarnandoli. Ora, a Venezia, è diventata Evita. «Perché volevo entrare nel mistero del suo corpo, abitarlo. Provare a dire, da dentro, quale sia il segreto che tutti quanti ci ossessiona come un vento che non cessa. Credo che la fragilità sia la chiave. La fragilità che diventa forza titanica. La promessa di morte che si trasforma in sfacciata, indecente testimonianza di vita. Più di tutto, fin da bambina, mi ha accompagnata anche nei sogni quella che si diceva fosse una leggenda e che la storia ufficiale ha sempre negato: che nella sua ultima apparizione in pubblico, all’insediamento del secondo mandato di suo marito, Evita fosse tenuta in piedi da un’armatura di ferro nascosta dalla pelliccia di visone. Pesava trenta chili, allora. Stava morendo per le emorragie vaginali procurate dal tumore. Sarebbe morta pochi giorni dopo. Però era lì: diritta sulla decappottabile, il braccio destro levato nel saluto e quell’anima di ferro a sorreggerla. Pensavo al sangue che le usciva dal sesso, io ragazzina, e all’armatura sotto la pelliccia. Un’emorragia, un’armatura, il pelo di un animale ucciso sul suo corpo, il sorriso insensato, le lacrime della folla. Tutta quella forza, mostruosa e bellissima».
Nicola ha costruito un oggetto, allora: mostruoso e bellissimo. Una macchina di ferro, lo scheletro di un abito lungo che somiglia all’armatura di un cavaliere medioevale, al collo una croce, sul petto una stella, ai piedi un motore che fa camminare l’anima nuda di quella forza metallica come una farfalla cieca, dentro una stanza di cristallo. Continuamente sbatte contro le pareti, sempre cambia rotta, sbatte ancora altrove, continua. Il pubblico la fotografa, i flash rimbalzano sul vetro: nessuna foto può fermare l’ipnosi di quel moto perpetuo, il sortilegio della forza che sgorga dalla sua negazione, l’emorragia invisibile alla sorgente della vita e del furore.
Nicola ha letto il libro di Tomás Eloy Martínez, naturalmente, quello in cui si dice che quel giorno Evita somigliava alla Statua della Libertà, fisicamente. Dunque — simbolicamente — a quella statua viva e morente: la libertà che vive e muore. In Italia lo ha appena pubblicato Sur con una bellissima prefazione di Fabio Stassi.
Santa Evita in Argentina si legge più di Dan Brown, con qualche ragione. La puttana di periferia calunniata da Borges, la pazza, la ballerina, la cavalla, la iena. Il corpo, quel corpo. Quella donna che ha fatto impazzire chiunque l’abbia vista anche solo una volta senza una ragione apparente. Letteralmente impazzire: morire nell’alcol, nel digiuno, nel fuoco. La bastarda nuda, la donna della frusta, la madre celestiale. «Ognuno legge il corpo di Evita secondo le prospettive del suo sguardo», scrive Martínez nella sua monumentale, epica ricerca dell’origine di un mito. Il corpo, il corpo. E’ questo l’arcano. Quel corpo. L’agonia a 33 anni, come Cristo. La teca di cristallo sospesa a mezz’aria da fili di nylon, il corpo imbalsamato di Eva — nudo — circondato da fiori e candele al centro di una sala smisurata, nera. Una via lattea di vene e capillari sul collo di alabastro. I capelli tirati, tinti di un biondo bugiardo. Le mutilazioni, poi. Il cadavere che viaggia il mondo e si nasconde nel terrore — altrui — che possa diventare idolo. Le coltellate inferte da morta, le dita tagliate. L’adorazione macabra, visionaria, dei resti. «Nelle nostre case il vento di Evita ogni giorno lascia il suo nome sul fuoco», dice il libro. Perché? Perché quei trenta chili di carne hanno fatto questo? Perché quella donna senza sesso, di ogni sesso, è diventata «una palude, un’allucinazione»? Era orribile e magnifica, d’altra parte questo è la bellezza — diceva Eva: la bellezza è sempre l’inizio di ciò che è terribile. Lo scopo, il senso, la risposta. Il corpo di Eva non esiste: ci esiste. Ci abita, ci appartiene. Il corpo di Eva, insepolto e ancora oggi nomade, siamo noi al risveglio ogni mattina.