Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  giugno 10 Lunedì calendario

“MI DARANNO LA CACCIA, MA DOVEVO PARLARE PERCHÉ OBAMA STA DISTRUGGENDO LA LIBERTÀ”

LONDRA — «Non voglio che l’attenzione pubblica sia su di me, non voglio che questa storia riguardi me, voglio che riguardi quello che sta facendo il governo americano». Così dice Edward Snowden, il 29enne ex-agente della Nsa e della Cia che ha deciso di farsi identificare come la “talpa”, la fonte delle rivelazioni del
Guardian sul Datagate. Ma la “storia”, a questo punto, è inevitabilmente anche la sua: perché lo ha fatto, cosa pensa, cosa gli succederà. In una videointervista e in un articolo messi ieri sera sul sito del quotidiano londinese, Snowden sembra calmo, determinato e consapevole dei rischi che corre a essere diventato l’autore della più grande fuga di notizie dall’interno dell’amministrazione Usa dal tempo dei Pentagon Papers durante la guerra del Vietnam. “E’ un eroe”, lo definisce Daniel Ellsberg, colui che fornì proprio i Pentagon Papers, le carte sui piani segreti di Nixon in Indocina, al New York Times.
Ma il dipartimento di giustizia americano potrebbe presto incriminarlo per violazione di spionaggio.
«Non ho intenzione di nascondermi, perché so di non avere fatto niente di male», afferma lui da Hong Kong, ammettendo tuttavia: «So che difficilmente rivedrò casa mia». In un messaggio che ha indirizzato al Guardian insieme alle sue prime rivelazioni, ha scritto: «Comprendo che mi faranno soffrire per le mie azioni. Ma sarò contento se le azioni del paese a base di leggi segrete e irresistibili poteri esecutivi che oggi governa il mondo che io amo verranno alla luce anche per un solo istante». E nell’intervista confessa: «Non ho votato Obama, ma credevo alle sue promesse. Invece ha continuato le politiche del suo predecessore».
Circa le reazioni al Dagate, osserva, «so che il governo americano mi demonizzerà», ma si augura che le sue rivelazioni servano ad aprire un dibattito negli Stati Uniti e nel mondo «sul tipo di società in cui vogliamo vivere». Non ci sono altre ragioni per il suo gesto, assicura: «Il mio unico scopo è informare l’opinione pubblica su quello che viene fatto nel suo nome e contro di essa». Snowden racconta che aveva una vita «molto confortevole», con un salario di circa 200 mila dollari l’anno, una girl-friend con cui condivideva una casa alle Hawaii, una carriera stabile, una famiglia a cui è molto legato: «Ma sono pronto a sacrificare tutto questo», dice al Guardian, «perché in tutta coscienza non posso permettere che il governo americano distrugga la privacy, la libertà su internet e le libertà fondamentali della gente di tutto il mondo con questa macchina di sorveglianza segreta che ha clandestinamente costruito».
Quindi ricostruisce come si è svolta la sua fuga. Tre settimane or sono ha copiato tutti i dati che si preparava a dare al quotidiano
britannico. Ha detto ai suoi superiori della Nsa che aveva bisogno di prendersi due settimane di assenza dal lavoro per curare l’epilessia di cui ha scoperto di soffrire. E alla sua ragazza ha dato spiegazioni ancora più vaghe. «Ma ciò è normale per qualcuno che lavora nell’intelligence», aggiunge. Poi è partito per Hong Kong. Temendo di essere seguito e spiato, in tre settimane è uscito soltanto tre volte dalla sua stanza d’albergo e, quando scrive la password per accedere al suo computer, ricopre tutto con un grande cappuccio rosso, per evitare che telecamere nascoste possano leggerla. Sa che gli Stati Uniti potrebbero avviare una richiesta di estradizione, o che il governo cinese potrebbe arrestarlo per ottenere da lui informazioni riservate, o che potrebbe diventare vittima di un’operazione di “illegal rendition”, cioè che «la Cia o un suo alleato potrebbe mettermi su un aereo e portarmi via». Ammette che non sarà più tranquillo per il resto della sua vita, ma insiste: «Non ho paura, perché questa è la scelta che ho fatto». L’unica cosa di cui ha timore è l’impatto che il suo ruolo nel Datagate potrà avere sulla sua famiglia, molti dei cui membri, afferma, lavorano anch’essi per il governo Usa.
In conclusione, perché l’ha fatto? «Ci sono cose più importanti dei soldi», risponde. «Se fossi stato motivato dal denaro, avrei potuto vendere quelle informazioni a svariati paesi stranieri e sarei diventato ricco». Ha agito, invece, per una pura questione di principio. «Il governo americano si è dato poteri a cui nessuno lo ha autorizzato. La conseguenza è che persone con un lavoro come il mio possono andare oltre i compiti che sono stati loro assegnati». Non esclude di riuscire a evitare incriminazione, processi, prigione o peggio: la sua migliore speranza, confida ai reporter del Guardian con cui ha lavorato, sarebbe ottenere asilo politico, e l’Islanda, che ha la reputazione di grande difensore delle libertà su internet, è “in cima alla lista”. Ma Reykiavic è quanto mai lontana da Hong Kong. Qualsiasi cosa accada, conclude Snowden, «non ho rammarichi, valeva la pena fare quello che ho fatto».