Alessandro Penati, Affari & Finanza, La Repubblica10/6/2013, 10 giugno 2013
ITALIA, SOLO SEI I CAMPIONI DELLA CRESCITA
La priorità dell’Italia è la crescita. Non solo per recuperare il crollo dell’attività economica dal 2008 (-8% il Pil rispetto a sei anni fa), ma per invertire il trend di stagnazione che aveva caratterizzato il decennio precedente. È diffusa la convinzione che la crescita sia solo una questione di politiche economiche e di riforme che i governi dovrebbero attuare. La soluzione sarebbe dunque nelle mani dello Stato. Vero, ma ci si dimentica che non c’è crescita del Paese senza crescita delle sue aziende. E la competitività del Paese riflette la capacità delle sue imprese di crescere nel mondo, svincolandosi dalla domanda interna stagnante, in settori dove la produttività è maggiormente elevata, diventando così un elemento di traino alla crescita. M a le imprese italiane, come il Paese, soffrono di un gap di crescita? E quali sono le caratteristiche di quelle che sono riuscite a tener testa ai concorrenti in Europa? Il gap di crescita comincia a manifestarsi nei primi anni dell’Eurozona quando l’Italia, non potendo più svalutare, con la zavorra di un apparato pubblico bulimico e costoso, e incapace di riformare, non tiene il passo con il resto d’Europa. Gap che si spalanca con la recessione del 2008. Ho quindi esaminato tutte le società non finanziarie quotate dell’Unione Europea (UE), e identificato quelle che sono riuscite a far crescere il fatturato più rapidamente dell’impresa UE mediana (ovvero il tasso
di crescita superato dal 50% delle aziende), dal 1998 a oggi. Tra queste ho poi selezionato quelle che hanno fatto meglio della mediana anche durante la crisi, negli ultimi cinque anni. Queste sono le imprese capaci di crescere stabilmente, ma anche di reagire con successo ai recenti anni di crisi. Poiché la crescita dimensionale spesso avviene a scapito della redditività (acquisizioni figlie della voglia di impero) e della solidità finanziaria (l’espansione a debito), tra le società selezionate a forte crescita del fatturato ho selezionato solo quelle che oggi hanno una redditività sul capitale investito (Roic) superiore alla mediana Ue, e un rapporto tra debito e margine operativo lordo (Ebitda) inferiore alla mediana Ue. Il risultato sono 181 società non finanziarie, i “campioni della crescita”, su1.258 esaminate (5.334 miliardi di euro la capitalizzazione complessiva, il 41% del Pil della regione). Questo gruppo esclude però le società sbarcate in Borsa nel decennio aureo delle quotazioni 1998-2007. Ho così rifatto la selezione con gli stessi criteri, ma concentrandomi solo sul periodo post-crisi 2008-2012. In questo modo i campioni di crescita diventano 203. Si obietterà che le imprese italiane notoriamente non si quotano perché a controllo familiare, perché il mercato finanziario è quasi esclusivamente bancario, e perché la previdenza è prevalentemente pubblica (mancano i grandi fondi pensione). Per questo, ho confrontato le società italiane con quelle tedesche, francesi e svedesi, tre paesi che hanno un welfare pubblico molto esteso, una forte presenza dello Stato nell’economia, e un sistema finanziario banco- centrico: quindi agli antipodi del modello di mercato anglosassone. Dalla Tavola 1 si vede come le aziende quotate non finanziarie in Italia siano drasticamente sottodimensionate, per numero come per capitalizzazione complessiva, rispetto alla dimensione della sua economia (13% del Pil), rispetto a Germania (37%), Francia (54%) e Svezia (77%). Già sento il coro: la Borsa in Italia è poco significativa, e le imprese italiane sono sotto dimensionate e crescono poco perché zavorrate dal “sistema paese”. Ma forse è ora di pensare a un nesso causale inverso: anche le imprese sono parte del “sistema”, avendo puntato troppo sul solo mercato domestico, e su settori a scarsa produttività. Inoltre, rinunciando a quotarsi, non si sono dotate di una struttura finanziaria adeguata alla crescita. La Borsa non serve solo a raccogliere capitali; facilita enormemente le acquisizioni e fusioni (nessuno vende una società in cambio di azioni non quotate); impone la trasparenza, la governance e il monitoraggio richiesti per emettere titoli di debito, fornendo un’alternativa al credito bancario; rende liquide le azioni, diventando così una garanzia che facilita l’accesso al credito bancario, e ne riduce il costo; allarga la platea dei possibili investitori, aprendo l’accesso al mercato internazionale dei capitali. Se c’è sproporzione rispetto ai nostri concorrenti europei nel numero di società quotate, lo è ancora di più se si considerano i campioni della crescita: quelli italiani sono soltanto 6 su 181 per il 1998-2012, un misero 3% rispetto al 22%, 17% e 10% di Germania, Francia e Svezia (Tavola 2). Non è solo la scarsa numerosità: mentre appena una su dieci delle società italiane considerate è campione a livello europeo, in Germania e Svezia lo è una su cinque. La performance delle aziende italiane quanto a crescita non cambia se si considera il solo periodo post-crisi 2008, e quindi si tiene conto delle nuove società sbarcate in borsa: il numero dei campioni europei aumenta da 181 a 203, ma le italiane rimangono ferme a sei. Interessante notare come l’unico dei quattro paesi che migliora la propria percentuale di campioni nella Ue sia la Svezia (anche la Germania peggiora), segno che la gestione della crisi del debito dell’Eurozona ha favorito le aziende dei paesi che non ne fanno parte. Passando ai nostri campioni di crescita per l’intero periodo dell’Eurozona, solo la metà sono aziende del tipico made in Italy (lusso, beni per la casa e la persona, manifatturiero, meccanico): Luxottica e Tod’s, nel lusso, Danieli nella meccanica. Sono aziende che vendono e operano prevalentemente all’estero e non dipendono dall’andamento dell’economia italiana. Le altre sono farmaceutiche (Recordati) e tecnologiche (Replay, informatica e logistica, Engineering, servizi informatici). Questo significa che crescita, produttività e redditività (anche per i dipendenti) delle aziende, e quindi del Paese, non possono prescindere dai settori che investono in ricerca, tecnologia e capitale umano; settori in cui i nostri imprenditori investono troppo poco. Se il paese soffre di scarsa crescita, è anche responsabilità delle troppe imprese che dipendono esclusivamente dalla domanda interna, operano in settori a bassa produttività, oltre che di un sistema finanziariamente sottosviluppato e sottodimensionato. Dal 1998, il fatturato medio dei nostri campioni è cresciuto a un tasso medio annuo del 14%, rispetto a una mediana Ue del 3%, con una redditività sul capitale doppia, e un indebitamento nettamente inferiore. Lo stesso dato emerge ancora più chiaramente per gli ultimi cinque anni di crisi. La metà dei campioni sono ancora farmaceutiche (DiaSorin e Cosmo, quotata in Svizzera) e tecnologiche (ancora Reply); le meccaniche sono diventate due, ma sempre orientate all’esportazione (ancora Danieli e Nice); mentre il lusso è ora rappresentato da un sito internet (Yoox). Nonostante la crisi di crescita italiana, queste aziende hanno avuto una crescita annua del fatturato del 19%, con una Roic medio del 15%, doppio della media Ue. Quindi, basta con gli stereotipi, utili solo offrire giustificazioni a basso costo: la tipologia e settori delle aziende italiane di successo sono gli stessi che altrove. E anche partendo dall’Italia si può essere campioni della crescita. Va bene lamentarsi, giustamente, per i costi del “sistema Italia”; ma gli imprenditori dovrebbero fare la loro parte: investire e gestire bene per far crescere il Paese.