Guido Ceronetti, La Stampa 9/6/2013, 9 giugno 2013
L’UMANITÀ INIZIA CON I PIEDI
[infografica in allegato Jpg]
Fino al 28 luglio è aperta a Novara una mostra scientifica («Homo sapiens», a cura di Luigi Cavalli Sforza e Telmo Pievani) che, pur trattandosi di pochi oggetti in un percorso breve, è alquanto totalizzante e non cessa, dopo visitata, di stuzzicare il pensiero sui temi proposti. Se non ti stimola la riflessione, la visita non ti lascerà che una memoria del tutto estinguibile di didascalie imperiose e di ossa fossili. Perciò il catalogo è una munizione indispensabile; ma va letto davvero: non è nozionistico né vanamente illustrativo.
Fortunato il visitatore che abbia visto a Roma, nel Palazzo Esposizioni di via Nazionale, la grande mostra del centenario darwiniano, allestita nel 2009. Darwiniani siamo tutti, ma ciascuno lo è a suo modo. L’eresia soltanto trattiene la vita.
Un grande pensiero, tanto semplice quanto fecondante per una riflessione, lo trovi all’entrata della mostra, e lo ripete Marco Aime all’inizio del suo saggio «Il viaggio dell’umanità: il punto di vista dell’etnografia»; lo dò in maiuscole perché chi ha orecchie intenda: LA STORIA DELL’UMANITÀ COMINCIA CON I PIEDI. L’antropizzazione sedentaria (un grande medico del XVIII la definisce la colpa dello star seduti) è degli ultimi secoli. Per milioni di anni gli esseri inconcepibilmente diversi che hanno abitato il pianeta, tra mostruosi eventi climatici e ambientali omicidi, hanno camminato, camminato, camminato senza mai fermarsi. Le loro povere femmine partorivano come tigri, dalla Siberia alle Madonìe, dall’Alaska a Mar del Plata, e dopo altri due o tre anni di maratona nel Vuoto la tribù in marcia lasciava corpi su corpi a calcinarsi sotto un solealtoforno, per diventare reperti paleoantropologici nel Duemila dopo Cristo, interpellabili come sfingi.
La vera speranza messianica è nell’estremo confine dell’onda poetica portata dalla battuta finale di Sonia in Zio Vania di Cechov: «Riposeremo, zio Vania, riposeremo». L’antropologo levistraussiano che ho citato, di cui trovo al termine del saggio un titolo bellissimo: Gli uccelli della solitudine (Bollati Boringhieri, 2010), completa così il pensiero sui piedi: «Siamo una specie migrante, che ha piedi e non radici». Le guerre senza fine della storia sono state e sarebbero fatte tuttora contro qualcuno che mette in dubbio delle radici inesistenti?
Ai piedi eternamente migranti, verso una Compostela o un Erez mosaico che si allontanano man mano che i piedi si sforzano disperatamente di raggiungere al crepuscolo un refrigerio agognato, va associato il linguaggio, che è senza radici e pare sia dipeso dall’assunzione della postura eretta (ma un orso eretto che balla, un cobra drizzato, un cane ammaestrato emettono, su due zampe, gli stessi suoni che su quattro), e la lingua parlata, che invece ha radici.
Originariamente, il Sapiens parlava più coi gesti che con le parole, non diversamente dal Neandertalensis da cui si differenzia. L’informazione fondativa della mostra e del catalogo è l’indubitabilità dello sradicamento. Ma saremmo, in questo caso, meno infelici, in quanto nelle radici e nei radicamenti è il vaso di Pandora di una grossa grossa parte delle sciagure umane. Nell’antropologia, con l’eccezione sublime, unica forse, di Claude Lévi-Strauss, non sembra esserci posto per la comprensione di tutto lo smisurato incessante viaggio evolutivo come una scuola di tremenda sofferenza . Se il culmine dell’evoluzione sono i secoli storici, c’è poco da rallegrarsi, perché sono i secoli della consapevolezza dell’inevitabilità della morte e della scarsa curabilità della sofferenza e delle piaghe del corpo materiale e di quello psichico. L’homme est perdu quoiqu’il fasse .
Il razzismo, sia biologico sia etnografico, oltre che come un punto dei più bassi di miseria della filosofia, si può anche interpretarlo come un disperatissimo tentativo di affermazione, nel sangue o nel simbolo, di un radicamento che l’albero della vita darwiniano smentisce o limita alle possibilità che una «lotta per l’esistenza» in un certo spazio di territorio abbia luogo. Dietro una «pulizia etnica» c’è sempre molta paura, fino a forme paniche, che le radici identitarie, mediante usurpazione del suolo, ci vengano recise. Non c’era traccia di queste malinconie brutali nell’antiepopea dei piedi dei marciatori paleontologici.
Rettifico la mia tenace, limacciosa idea romantica dell’assenza di patria, che non vedo oggi condivisa in Italia da nessuno. Se dobbiamo comprendere qualcosa delle nazioni d’oggi, dell’Italia in specie, non bisogna rimpiangere e dolersi troppo per una patria assente . L’attuale razzismo etnico strisciante non sembra dovuto a paure identitarie ( italianità non è un termine che abbia corso legale; nessuno saprebbe definirlo), ma a motivazioni molto più povere e banali. E con la globalizzazione economica non tiene più nessuna idea di radici, nessuna appartenenza a un radicamento storico qualsiasi.
La filosofia evoluzionista ha un punto cruciale, noto, in cui cessa di funzionare. La coscienza non la puoi estrarre dai piedi gustosi di uno scimpanzé che per milioni e milioni di anni hanno camminato fino a trasformarsi gradualmente in arti di esseri addirittura forniti di apparati fonanti (di cui sono state ritrovate e decifrate impronte anche in una Italia meridionale popolata da mammut e da ippopotami). La coscienza non è un funghetto evolutivo... Valga la domanda del ventottesimo di Giobbe:
Ma la Sapienza da dove viene? L’Intelligenza dove trovarla? Raffigurarsela l’uomo non sa Sulla terra dei vivi non dimora Dice l’Abisso in me non è Il mare dice non la contengo ( Iob 28 - 12-14, traduzione mia)
Tuttavia la Hokhmàh (Sofia, Sapienza) una casa visibile ce l’ha ed è la sola che conosciamo. Per dirla esistente e presente, un volto umano basta e qui la teniamo, insieme all’impossibilità che l’albero evolutivo arrivi, con le sue cime più alte, neppure a sfiorarla. Non per dire biodiversità , ma per affermare l’assolutezza di una irriducibile alterità, mi è sufficiente l’autoritratto dell’uomo
Leonardo (la cui attribuzione a me appare indubitabile) custodito alla Biblioteca Reale di
Torino. E quel volto è di sofferenza; concentra una contemplazione infinita del mondo come luogo di pena, della vita come condanna a essere per colpe inesplicabili; e una mano sublime, a sanguigna, l’ha tracciato.
Gli può stare accanto un autoritratto di Vincent Van Gogh, e anche il suo straordinario nudo della prostituta incinta Sien, intitolato, con mirabile esattitudine, Sorrow .
La teoria evoluzionista è insufficiente a spiegare l’autentica diversità umana, il dogma creazionista ex nihilo non regge più alle picconate della ricerca e della filosofia. Ci restano le vie dei miti con le loro verità sottostanti, le loro rivelazioni che varcano qualsiasi limite temporale e spaziale. Ci restano le domande senza risposta del ventottesimo di Giobbe. Ed è bene non cessare di cercare radici, e forse vale la pena rimpiangere l’assenza, la perdita, l’orfanità di una patria, illusione che riduce, sia pure di poco, lo smarrimento di vivere.
I piedi, ancora... Un giorno sarà un enigma di paleoantropologia il piede di Armstrong sul suolo lunare nel 1969. Meno perduta dell’umanità urbanizzata fissa, che è la più grande delle sciagure delle storia umana, è certamente la specie viaggiatrice, anche se l’eterno viaggiare si è dovuto adattare a compiere qualsiasi distanza, col culo eternamente sul sedile, coi piedi su quattro ruote, in continenti asfaltati. Perché un angelo può sempre esserci, che fa segno a un incrocio, il carro di Elia raccoglierci, per portarci anywhere out of the world , ai margini di una foresta superstite.
"Solo negli ultimi secoli siamo diventati sedentari Per milioni di anni i nostri antenati hanno marciato Il mistero della coscienza: restano i miti con le loro verità sottostanti e le domande senza risposta di Giobbe"