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 2013  giugno 09 Domenica calendario

MORIRE

a guerra persa è il sacrificio più duro. Anche per quei militari che hanno un senso sacerdotale della propria missione, come molti dei nostri tremila schierati in Afghanistan. Giuseppe La Rosa è caduto per mano di un ragazzino, se vogliamo credere alla propaganda talebana.
L’uccisione del bersagliere nella fatale area di Farah riapre un capitolo che l’opinione pubblica italiana aveva rimosso. E impone di spiegare a noi stessi perché un altro giovane soldato italiano – il cinquantatreesimo dall’inizio della missione Isaf – sia morto in una terra che da tempo i leader occidentali hanno classificato irredimibile, senza avere il coraggio di ammetterlo. Anzi, continuando a stanziarvi decine di migliaia di uomini, alcuni dei quali resteranno sul campo ad “addestrare gli afgani” ben oltre la scadenza dell’annunciato “ritiro”, fissato per il dicembre 2014.
I modesti esiti di questa pedagogia occidentale sono confermati dall’ennesimo attentato compiuto da un uomo con la divisa dell’esercito afgano contro i suoi alleati “addestratori”, costato la vita a tre soldati americani nella provincia di Paktika, proprio nelle ore in cui cadeva La Rosa. Allenare i colleghi afgani è pratica spesso vana, sempre pericolosa e potenzialmente infinita. La linea d’ombra che distingue un trainer da un bersaglio umano in ambiente ostile è piuttosto sottile. Eppure, come annunciato dal Pentagono e dalla Nato e confermato dai comandanti americani sul campo, si stanno allestendo i piani per restare in Afghanistan per un altro decennio almeno. Non solo con i droni. Negli Stati Uniti si discetta di diecimila uomini, forse più, destinati a “completare la missione”. Se davvero resteranno tanti americani, saranno affiancati da diverse migliaia di europei, compresi gli italiani cui rimarrà affidata la responsabilità del settore occidentale, dove ieri è
stato ucciso La Rosa. Ogni volta che un nostro soldato cade in Afghanistan, si riaccende la polemica su ritiro o non ritiro. E ogni volta i fautori del “tutti a casa” crescono, mentre a difendere la necessità della missione rimangono, non troppo convinti, i responsabili delle istituzioni civili e militari – nemmeno tutti. Si sprecano le polemiche sguaiate, gli appelli fintamente accorati. Poi silenzio. Nulla accade. Si rimuove. Fino al prossimo morto, che riapre il tristo circuito.
La risposta alla domanda “che ci facciamo noi lì” pretende la mente fredda. Ma urge. Perché nei prossimi mesi saranno prese a Washington – per esserci comunicate via Bruxelles (Nato) – le decisioni strategiche valide per l’ultimo triennio di Obama. Sarebbe opportuno stabilire che cosa vogliamo o non vogliamo fare in Afghanistan, prima che a spiegarcelo siano, come d’abitudine, i nostri alleati. Qualsiasi ragionamento deve partire dalla constatazione che per gli europei la missione afgana è da sempre fine a se stessa. Oggi più che mai ci attestiamo nell’Hindu Kush non per vincere una guerra invincibile contro nemici indefinibili – specie quando indossano la divisa afgana – ma per dimostrare che la missione continua. E con la missione la Nato. E con la Nato la nostra utilità per l’America.
In Afghanistan è in corso una campagna di manutenzione della Nato. Un tagliando costoso. Come vent’anni fa nell’ex Jugoslavia, quando un alto funzionario atlantico spiegava: “Per sopravvivere, un’organizzazione internazionale non può avere solo una missione concettuale. Le organizzazioni hanno bisogno di fare cose. Devono fare cose. Ecco perché la Nato ha bisogno dei Balcani e i Balcani
Nato”. Metti Afghanistan al posto di Balcani e hai illustrato il caso Isaf.
La domanda cui rispondere è dunque: vale la pena di manutenere la Nato in Afghanistan? Fino a che prezzo? Forse sarà il caso di considerare se, pretendendo di preservare l’Alleanza Atlantica, non la stiamo affossando. Escludere per principio l’opzione zero – quel ritiro totale che forse potrebbe favorire la provvisoria decantazione della mischia afgana – appare irragionevole. E comunque, la prossima volta che scegliamo un terreno di addestramento per noi stessi, dipingendolo come emancipazione altrui, scegliamolo meglio.