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 2013  giugno 06 Giovedì calendario

LA GUERRA DELLA CASA BIANCA ALL’ASSE TRA IL CAV E MOSCA

Se vivete di pane e complot­ti, il 15 febbraio 2011 vi sembrerà una congiun­zione fatidica e fatale. Se non ci credete, gode­tevi le bizzar­rie del desti­no e della sto­ria. Quel gior­no tra Mosca, Bengasi e Mi­lano si com­piono tre av­venimenti chiave, appa­rentemente slegati tra loro. Nella capi­tale russa, il consigliere del Cremlino Sergei Prikh­o­dko annuncia l’arrivo a Roma del presi­dente Dmitry Medvedev per la firma di uno storico contratto con l’Eni, destinato ad aprire le porte della Li­bia al gigante del petrolio russo Gazprom.
A Milano, nelle stesse ore, il giudice per le indagini preliminari Cristina Di Censo deposi­ta il rinvio a giudizio per gli im­putati del processo Ruby. A Bengasi, invece, scoppiano i disordini che spingeran­no la Nato all’interven­to militare e all’elimi­nazione di Gheddafi.
Nessuno quel giorno può intravvedere la mi­nima correlazione fra i tre even­ti, destinati a determinare l’emargina­zion­e interna­zionale del­l’allora pre­sidente del Consiglio Silvio Berlusconi e portarlo alle dimissioni.
Le conseguen­ze del processo Ruby e della rivol­ta di Bengasi so­no ormai chiare. Quelle dell’annun­cio di Mosca, seppu­re meno trasparenti, sono fondamentali per comprendere perché i legami intessuti dal governo Berlusco­ni con Mosca e Tripoli fossero un ostacolo agli interessi di alcuni importanti «alleati» del­l’Italia. L’accordo fir­mato dal presidente Medvedev, a Roma il 17 febbraio 2011, mentre a Bengasi già infuriano gli scontri, garantisce il passaggio a Gazprom della metà dei dirit­ti di sfruttamento, detenuti per il 33 per cento da Eni, del pozzo libico di El Feel. Quel giacimen­to non è una risorsa come le al­tre. Scoperto nel 1997 da un consorzio internazio­nale partecipato dal­l’Eni, e battezzato Elefan­te per le sue dimensioni, il pozzo, situato a 800 chi­lometri a sud di Tripoli, custodi­sce circa 700 mi­lioni di barili di greggio. È in­somma una delle più im­portanti ri­serve della nostra ex co­lonia. La cessione di un sesto di quel greggio a Gaz­prom, la compa­gnia petrolifera considerata il braccio armato di Mosca nella guerra per l’ener­gia tra Russia e Stati Uniti, viene visto co­me uno sgarro del­l’Italia alle politiche energetiche dell’Europa e del­la Casa Bianca. Uno sgarro frutto degli stretti lega­mi d’amicizia in­tessuti da Silvio Berlusconi con Vladimir Putin e Muhammar Gheddafi. Per ca­pire perché l’accordo sul poz­zo di El Feef diventa la goccia ca­pace di far traboccare il vaso spingendo i nostri alleati a eli­minare Gheddafi e a ridimen­sionare Berlusconi, bisogna far un salto indietro al 3 novem­bre 2003. Quella notte un’ope­razione organizzata dal Sismi di Niccolò Pollari, d’intesa con Cia e MI6 britannico, porta alla scoperta nelle stive del porta­container «Bbc China», da poco attraccato nel porto di Taran­to, di un importante carico di frequenziometri, pompe, tubi di alluminio e altre parti essen­ziali per assemblare le centrifu­ghe destinate all’arricchimen­to dell’uranio. Quel carico de­stinato a Tripoli diventa la «pi­stola fumante» sufficiente a provare i tentativi del Colonnel­lo libico di dotarsi di armi nucle­ari. La «pistola fumante» viene subito usata da Cia e MI6 per mettere Gheddafi con le spalle al muro e convincerlo a rinun­ciare ai suoi programmi nuclea­ri garantendogli, in cambio, la fine delle sanzioni e la ripresa dei rapporti commerciali con l’Occidente.
La capacità dell’Italia di assi­curarsi le più importanti commesse libiche, grazie ai rappor­ti tra Berlusconi e il Colonnello, finisce con il mettere in crisi il patto siglato tra le banchine di Taranto. I primi a soffrire e a lamentarsi sono gli inglesi. Sir Mark Allen, l’uomo dell’MI6 mandato a fine 2003 a gestire la resa di Gheddafi, si ritrova a do­ver­ garantire la liberazione del­lo stragista di Lockerbie, Abdul Baset Ali al Meghrai, per assicu­rare alla Bp un contratto da 54 milioni di sterline.
Berlusconi nel frattempo ina­nella accordi assai più fruttuosi, usando esclusivamente il rapporto personale con l’estroso dittatore libico. Il malessere di Londra resta confinato fin­ché la Casa Bianca resta nelle mani di un George W. Bush e di un’amministrazione repubbli­can­a disposti ad accettare le po­litiche «parallele» dell’alleato italiano in cambio della collaborazione a livello internazionale, dell’impegno in Iraq e Af­ghanistan e degli stretti rappor­ti intessuti con Israele. Lo sce­nario cambia bruscamente agli inizi del 2009, quando lo Studio Ovale passa nelle mani di Barack Obama e dell’ammi­nistrazione democratica. Con il cambio d’inquilino, cambia­no anche strategie e obbiettivi. Le costanti frizioni con il pre­mier israeliano Benjamin Netanyahu spingono gli strateghi democratici a definire un’ardi­ta politica di avvicinamento ai Fratelli Musulmani. Dopo aver­li frettolosamente identificati come la forza emergente pron­ta ad abbracciare la democrazia e ad accettare, grazie all’aiu­to del Qatar, le politiche di Washington, i teorici liberal di Obama scommettono su di lo­ro per sostituire quei dittatori fulcro delle strategie america­ne in Medio Oriente e Nord Afri­ca. La nuova alleanza, oltre a rendere marginale il ruolo d’Israele, sancisce una svolta nell’ambito dello scontro ener­getico con la Russia. Il Qatar, nemico dell’Iran sciita e quin­to produttore mondiale di gas, diventa - nei piani messi a pun­to dai think tank demo­cratici - uno dei tanti tas­selli destinati impedire a Gazprom e a Mosca di egemonizzare le forniture energetiche all’Europa.
Nell’ambi­to di questa nuova strate­gia anche l’Ita­lia di Berlusconi si tra­sforma in un ostacolo da spianare. E a farlo capire, sollecitando inchieste se­grete capaci d’innescare accuse di corruzione e inte­resse privato ben peggiori di quelle pio­vute su Berlu­sconi un an­no dopo, ci pensa il segretario di stato democratico Hillary Clinton. «Preghiamo di fornire qualsiasi informazione sulle re­lazioni personali tra il primo ministro russo Vladimir Putin e il premier Silvio Berlusconi. Quali investimenti personali, potrebbero aver indirizzato le loro politiche economiche ed estere», scrive un lungo cablo­gramma segreto, diventato pubblico grazie a Wikileaks, in­dirizzato a fine di gennaio 2010 dalla segreteria di stato di Washington alle ambasciate di Mosca e Roma. La Clinton chie­de insomma a diplomatici e a servizi segreti di fornirgli delle prove da usare contro l’«allea­to» Berlusconi e contro il «ne­mico» Putin. Cosa vuole fare con quelle informazioni il capo della diplomazia americana? Come intende utilizzarle? A chi vuole passarle? Forse non lo sapremo mai. Ma sappiamo che, in quel gennaio 2010, al­l’a­ssalto giudiziario contro Berlusconi si aggiunge la guerra in­ternazionale.