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 2013  giugno 05 Mercoledì calendario

COSI’ ZINCONE FU EPURATO NEL «CORRIERE» DOMINATO DA MASSONI E COMUNISTI

Caro Vittorio, ho letto le belle parole che hai dedicate a ricordare uno dei nostri più grandi colleghi e amici, Giuliano Zincone. Non ti dispiacerà se vi aggiungo alcune postille atte a ristabilire una verità storica. Un bellissimo ricordo di Giu­liano Zincone è uscito lunedì sul Corriere della Sera che per tanti anni si è onorato di averlo tra le sue firme più prestigiose, a opera di Fran­cesco Ceva­sco. Bellissi­mo e anche molto corag­gioso: perché Cevasco dice apertis verbis alcune verità scomode, di quelle che non giova a nessuno ricor­dare; onde va ringraziato an­che il Diretto­re Ferruccio de Bortoli che ne ha avallato la pubblicazio­ne.
Cevasco ri­corda il perio­do nel quale Zincone venne prestato (adopero il termine non a caso) al glorioso quotidiano so­cialista genovese Il lavoro per fa­re il direttore: un favore che il Corrie­re della Sera fece all’allora pre­sidente della Repubblica San­dro Pertini, genovese, appunto. E dò la parola al nostro collega Francesco: «Zincone lo rimette a posto (...) Ma esagera: continua a fare il giornalista vero e onesto. E sfida la P2. Che oggi ci fa ri­dere, ma allo­ra era un gros­so ­centro di po­tere, vero pote­re. E Zincone salva una vita umana. Quel­la del giudice Giovanni D’Urso seque­strato dalla Brigate Rosse nel dicembre 1980. Quei deficienti del­le Br, in cambio della pubblica­zione su un giornale di un comu­nicato dei detenuti nelle carceri speciali di Palmi e Trani, erano disposti a liberare il magistrato anziché ucciderlo. Zincone lo pubblica, quel comunicato (...). Zincone “frega” le Brigate rosse, ma la P2, che non voleva “cedere ai terroristi”, “frega”lui:lo caccia dalla direzione del Lavoro».
Per chi non ha vissuto quei giorni, ricordo che la cosiddetta «linea della fermezza» venne imposta dal Partito comunista ita­liano all’epoca del rapimento di Aldo Moro: laddove Bettino Cra­xi risult­ò sconfitto col propugnare la linea di opinione, e compor­tamento, opposta, che cioè una vita umana valesse il prezzo di una trattativa.
Ora, il punto essenziale da ag­giungere alle parole di Cevasco è che all’epoca del rapimento del giudice D’Urso si era realizzata la saldatura del Pci con la loggia massonica P2: insieme domina­vano e gestivano il Corriere della Sera.
Giuliano Zincone sapeva be­nissimo che salvando la vita al giudice avrebbe perduto il posto di direttore del Lavoro. Ma essen­do stato prestato al giornale ge­novese, aveva un contratto che stabiliva il «diritto potestativo» in capo a lui di rientrare automa­ticamente al Corriere con le fun­zioni di inviato e fondista che ri­copriva prima. Occorre ancora sapere che dopo il caro e grande Franco Di Bella, il quale aveva dovuto lasciare la direzione del Corriere per aver ingenuamente aderito egli stesso alla P2, del che era stato costretto dalla proprie­tà, essa sì piduista e dalla P2 ricattata co­llo stringere i cordoni del­la borsa bancarî, venne nomina­to direttore il giornalista Alberto Cavallari. Costui accettò di pas­sare per una procedura infamante: il Pci attraverso le sue longae manus, pretese che ricevesse una patente di antifascismo rila­sciata da una personalità notoriamente antifascista. Ricordo che Enzo Biagi abbandonò il Cor­riere per lo sdegno.
La P2 «antifascista»? Ai giova­ni che forse ci leggono sembrerà un paradosso, ma non certo a noi. Cavallari, che si proclamava «laico, democratico, antifasci­sta» (che fa il paio con «orrore, sdegno, esecrazione»: e quanto ne ridevamo con Giuliano!), e che si proclamava, soprattutto, antipiduista, era de facto il diret­tore piduista molto più di Di Bel­la.
Così Cavallari, violando ogni regola di diritto (nihil novi sub so­le, è vero, caro Vittorio?) impedì il ritorno al Corriere di Giuliano Zincone: che venne debolissi­mamente difeso dall’organismo sindacale, allora controllato dal Pci. E avrebbe fatto fuori Zinco­ne, il Cavallari, dico, se, uomo odiatore del genere umano, mal­mostoso, affetto da turbe caratte­riali, non avesse deciso di farne fuori troppi, al Corriere. Ma, ap­punto, accecato dall’odio, non ebbe l’accortezza di Orazio Co­clite che, al ponte Sublicio, affrontò i nemici uno per uno: vol­le farli fuori tutti insieme. E così per grazia della provvidenza, si scornò.
Giuliano Zincone rientrò al Corriere quando, sconfitta la P2 e il Pci, venne nominato quel grande direttore e sovrano fondi­sta che è Piero Ostellino: e ripre­se a scrivere con un «fondo» che principiava così: «Ieri diceva­mo». Citazione di quel frate pro­fessore all’università di Salamanca che, perseguitato dall’In­quisizione per lunghi anni, ritor­nò un giorno sulla sua cattedra principiando «Heri dicebamus».
Giuliano durante la persecu­zione manifestò uno stoicismo antico e dopo un filosofico distacco dalla vicenda e persino verso quello sventurato di Cavallari (ché sventurato è chi è affetto da odium humani generis e vive nel continuo sospetto e nel comples­so di persecuzione tipico del ser­vo: onde non si rendeva conto che perseguitare gli avversarî aperti, come te e, nel mio picco­lo, me, non serviva a niente), un filosofico distacco che gli fa im­menso onore. E infatti non vole­va che la storia venisse rievocata.
Ma non credo dispiacergli se lo faccio io: affinché questa storia non si ripeta, non dico una sola volta, che già s’è ripetuta, ma al­meno che non si ripeta più. Che ne pensi?