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 2013  giugno 05 Mercoledì calendario

LA SINISTRA FACEVA GLI AFFARI MA IL COLPEVOLE E’ BERLUSCONI

Perché a Piero Fassino sta­va tanto a cuore la con­qu­ista della Banca nazio­nale del lavoro? Perché il segre­tario dei Ds si dava del tu con l’amministratore delegato di Unipol, e festeggiava come un successo comune un affare fat­to da quest’ultimo? Chi decise che l’intercettazione del dialo­go tra Fassino e Consorte fosse talmente irrilevante da non venire nemmeno trascritta negli atti dell’inchiesta? Chi appose l’omissis sul brogliaccio? La Pro­cura sapeva o non sapeva che dietro l’omissis del 18 luglio era nascosto Piero Fassino?
Invano, nelle 97 pagine delle motivazioni depositate ieri dal tribunale di Milano si cercherebbe una risposta a queste do­mande. La vera storia del tripu­diante «abbiamo una banca!» di Fassino resta sullo sfondo del processo che ha portato alla condanna senza attenuanti e senza condizionale di Silvio Berlusconi e di suo fratello Pao­lo per l­a pubblicazione della in­tercettazione sul Giornale, nel dicembre del 2005. Una pennel­lata sola, per riconoscere la gra­vità - oggettivamente clamoro­sa - di quella conversazione, si trova a pagina 79 delle motiva­zioni: laddove i giudici defini­scono la frase di Fassino «significativa della capacità della sini­stra di fare affari e mettersi a ta­volino coi poteri forti, in aperto contrasto con la tradizione sto­rica, se non di quel partito, quanto meno dell’orientamen­to del suo elettorato». Uno spira­glio appena, una porta che si apre e subito si richiude su una vicenda mai chiarita. Ma che i giudici ritengono evidente irri­levante ai fini della sentenza.
E la sentenza è quella che il 7 marzo è approdata alla condan­na non solo di Paolo Berlusco­ni, che un qualche ruolo come editore del Giornale ha ammes­so ­in questa storia di averlo avu­to, e che si vede riconosciuta an­che la «aggravante scoop» («per conseguire indebiti profit­ti patrimoniali collegati tra l’al­tro ai maggiori incassi delle vendite del quotidiano di cui era editore, dovuti a quello scoop nel periodo di fiacca natali­zia»). Ma è stato condannato anche suo fratello Silvio, per il qua­le la stessa Procura al termine delle indagini aveva chiesto il proscioglimento, e di cui inve­ce per il tribunale è «logicamen­te provato» il «concorso morale» alla violazione del segreto e alla sua pubblicazione, quanto­meno attraverso il «tacito assenso». «La sua qualità di capo del­la parte politica avversa a quel­la di Fassino rende logicamente necessario il suo benestare alla pubblicazione della famosa telefonata non potendosi ritenere che senza il suo assenso quella telefonata, che era stata fatta peraltro ascoltare a casa sua, fosse poi pubblicata».
Sono condanne scritte sul­l’acqua, perché a settembre l’intera vicenda verrà inghiottita dalla prescrizione prima ancora che venga fissato il processo d’appello. Ma le motivazioni so­no comunque una lettura inte­ressante. Sia quando negano al Cavaliere le attenuanti generi­che e la condizionale, nono­stante sia incensurato, per la «lesività della sua condotta» e a causa delle «altre condanne sia pure non definitive». Sia quan­do si addentrano nei meccani­smi complessi e un po’ diaboli­ci che regolano le intercettazio­ni telefoniche e che, in partico­lare, vennero impiegate nell’in­chiesta Antonveneta, di cui quella su Bnl fu uno spin off, una costola. Perché in aula i tec­nici hanno spiegato che fu la Procura della Repubblica a pretendere che venisse impiegato un sistema del tutto nuovo, chiamato Mito 2, che consenti­va di immag­azzinare e duplica­re tutto quanto veniva intercet­tato, e di risalire poi attraverso i motori di ricerca a ogni nome, a ogni parola. Ma poi ad ascolta­re e a trascrivere tutto, riassu­mendolo nei brogliacci, era la Guardia di finanza. «La conver­sazione non era stata trascritta né utilizzata - ha testimoniato un ufficiale delle Fiamme gialle - era stata ritenuta non rilevante perché non aggiungeva nulla di nuovo a quanto gia accertato nelle indagini». Ma lo stesso uf­ficiale aggiunge che comun­que nei brogliacci il nome di Fassino c’era:«compariva la da­ta, l’ora della chiamata,il nome dell’onorevole». Ma uno dei pm dice invece: «nei brogliacci non comparivano i nominativi dei parlamentari». Chi non la racconta giusta?