Giuliano Aluffi, il Venerdì 7/6/2013, 7 giugno 2013
IL VANTAGGIO DI ESSERE TIMIDI
Difficile immaginare Clark Kent che, di fronte a una minaccia per Metropolis, entra in una cabina telefonica, si trasforma in Superman e rimane lì al riparo, per non farsi notare. Eppure, se la timidezza non è un superpotere, poco ci manca. In molti casi rappresenta infatti un vero vantaggio evolutivo, capace di garantire la sopravvivenza. A sostenerlo è una serie di studi a cavallo tra psicologia, etologia e scienza del management.
Partendo, per così dire, dal basso, nel 1990 l’etologo Andrew Sih, della University of California, riscontrò che le salamandre più «estroverse» e aggressive crescono sì più in fretta delle altre perché mangiano di più, ma sono meno attente ai predatori e hanno, quindi, una mortalità più alta. In zona più prossima alla specie umana, Stephen Suomi, psicologo dello sviluppo alla University of Virginia, nel 2003 si accorse invece che i macachi rhesus meno estroversi, quelli cioè che impiegano più tempo ad allontanarsi dalla famiglia per avventurarsi nel mondo, hanno una mortalità più bassa dei loro simili, perché lasciano il gruppo quando sono più grandi e saggi. E l’uomo? Era il 2004 quando lo psicologo Daniel Nettle, della Newcastle University, studiando 545 adulti inglesi, notò che l’estroversione, pur garantendo un maggior numero di partner durante la vita, era correlata a una maggiore probabilità di finire all’ospedale per incidenti o malattie. Oggi studi di questo genere si moltiplicano, tanto che, come fa il settimanale New Scientist, in linguaggio darwiniano si comincia a parlare di «sopravvivenza del più timido».
«Del resto, considerando le società, è evidente che funzionano meglio quelle dove c’è un assortimento di estroversi e di introversi: se tutti sgomitassero per avere più visibilità, sarebbe il caos. I gruppi umani con un mix di caratteri, sul lungo termine, sono favoriti dall’evoluzione» commenta Robin Dunbar, docente di antropologia e psicologia a Oxford diventato famoso per il «numero di Dunbar», ossia per aver stimato il massimo numero di veri amici che possiamo avere.
I timidi, però, per quanto rivalutati dalle teorie evoluzionistiche, non paiono avere vita facile: una ricerca del 2013 della Stagecoach Arts School indica che 4 adulti su 10 ritengono di aver perso promozioni e aumenti di salario a causa della loro timidezza. E la loro non sarebbe solo un’impressione. «Due numeri inquadrano la discriminazione: circa il 50 per cento della popolazione ha un carattere estroverso, ma tra i manager gli estroversi superano il 95 per cento» dice Francesca Gino, che insegna scienze del comportamento alla Harvard Business School. Dal suo punto vista, una vera ingiustizia. Sulla base di test condotti negli ultimi due anni, lei sostiene infatti che gli introversi possono essere manager migliori degli altri. «Soprattutto quando il contesto è dinamico, incerto e imprevedibile. Perché allora diventano preziosi gli input che arrivano da chi sta sotto nella gerarchia, ma è più vicino agli eventi e al mercato. Perché i suggerimenti dal basso portino l’azienda al successo serve però un leader capace di ascoltare i suoi sottoposti, e un leader introverso è l’ideale, perché i leader estroversi tendono a sentirsi minacciati dai suggerimenti altrui».
Quando si tratta di essere ricettivi, insomma, i timidi hanno una marcia in più. «Riescono a percepire meglio gli aspetti emotivi delle situazioni: sono più consci delle proprie emozioni e di quelle altrui» spiega Anna Ogliari, docente di psicopatologia dello sviluppo e responsabile di corsi per la terapia della timidezza patologica all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. «Inoltre si è visto che i bambini introversi sono degli ottimi lettori degli indizi emotivi espressi dai volti. In loro, infatti, funziona al meglio quel meccanismo di difesa atavico che l’evoluzione ci ha dato per riconoscere i segni di pericolo. Che non va confuso con la timidezza eccessiva e patologica, che diventa un punto debole perché porta a sovrainterpretare come ostili anche espressioni neutre, generando un’ansia immotivata che paralizza».
Ma timidi si nasce o si diventa? «C’è una componente genetica, ma non bisogna sopravvalutarne il peso» risponde Anna Ogliari. «I disturbi d’ansia, ossia l’aspetto estremo della timidezza, hanno una matrice genetica comune. Sono gli stessi gruppi di geni a modulare il disturbo d’ansia generalizzato, l’ansia da separazione e il panico. Ma i singoli effetti ambientali, e specifici eventi nella vita, fanno sì che ognuno di noi manifesti una patologia invece di un’altra». E anche in questo caso il bicchiere della timidezza si rivela, sorprendentemente, mezzo pieno. «Si è pensato per diverso tempo che questi geni fossero geni della vulnerabilità, oggi però li si ritiene, più correttamente, geni della plasticità. Perché, se l’ambiente in cui si cresce è favorevole, possono predisporre al successo» sottolinea lo psicologo Jay Belsky, docente alla University of California di Davis. «In ambienti familiari sfavorevoli, i bambini introversi tendono infatti a svilupparsi meno degli altri, ma in contesti favorevoli tendono a svilupparsi di più. Sono più sensibili all’ambiente». Lo conferma un altro luminare della timidezza infantile, Nathan Fox, direttore del Child Development Lab dell’Università del Maryland. «La componente genetica, da sola, non basta. Il gene trasportatore della serotonina (neurotrasmettitore che regola l’umore, il sonno e l’appetito) 5-HTT, ha due varianti, dette alleli, di lunghezza diversa. Gli individui con l’allele corto non hanno molta serotonina e, se esposti a eventi negativi, hanno maggior rischio di sviluppare timidezza e depressione. Ma l’associazione tra l’allele corto e la timidezza non è forte di per sé: diventa forte quando c’è un ambiente avverso».
Del resto l’ambiente influenza non solo l’insorgere della timidezza, ma anche il modo in cui viene considerata: lo stigma sociale che colpisce le persone riservate e taciturne non è assoluto, ma relativo e dipendente dalla cultura. «Il mio collega Xinyn Chen ha chiesto a genitori canadesi e cinesi di giudicare il temperamento dei figli. Bene, i canadesi che consideravano i loro figli timidi pensavano che quello fosse un problema. Invece i genitori cinesi la ritenevano una cosa molto buona e auspicabile per lo sviluppo sociale» spiega Nathan Fox. «Anche noi occidentali, però, rispettiamo la timidezza. Circa il 1520 per cento della popolazione si dichiara "molto timido": se davvero lo considerassimo un tratto negativo, ad attribuirselo sarebbe molta meno gente».
Giuliano Aluffi