Marco Cicala, il Venerdì 7/6/2013, 7 giugno 2013
REBUS CATALANO
BARCELLONA. Undici settembre 2012. Una fiumana di gente rumorosa ma pacifica, sfila in centro. Al grido di Catalogna nuovo stato d’Europa. Una coppia di anziani, che non ha mai specialmente tifato per la causa indipendentista, guarda il corteo dalla finestra. Poi, magnetizzata dal clima festoso, scende in strada. Si lascia coinvolgere da cori, slogan, saltarelli. È tutto uno sventolìo di senyeras – i vessilli giallorossi dell’orgoglio nazionale catalano. Essendone sprovvisti, i vecchietti chiedono a uno col bandierone: Ce ne potresti dare un angolino? Quello ne ritaglia un pezzetto: Ecco, compagno! Sono 3 euro.
Mi raccontano la storiella come se fosse vera. Ma assomiglia troppo a una delle solite barzellette sul cliché del catalano tirchio e pesetero, venale. Però, a nove mesi da quel raduno – che a Barcellona avrebbe portato in strada un milione e mezzo di persone – sulle spinte scissioniste della Catalogna c’è sempre meno da scherzare. Tra i governi autonomo e centrale è stato ancora un anno di duelli. L’ultimo a maggio, quando la Corte Costituzionale ha bocciato l’ennesima impennata del Parlament di Barcellona che aveva dichiarato la Catalogna «soggetto politico e giuridico sovrano». Soberanismo (sovranismo) è qui parola di gran moda. Molto à la page anche la formula derecho a decidir. Del diritto a decidere, i partiti catalanisti sono determinati a servirsi già l’anno prossimo in un referendum al cardiopalma sull’autodeterminazione. Si farà? Va’ a sapere. Anche perché nella Catalogna dove l’evangelo separatista fa sempre più proseliti, il quadro politico è a dir poco problematico.
Alla guida della Generalitat, il governo autonomo, c’è il messianico Artur Mas, un ex imprenditore di 56 anni dagli occhiali design, leader di CiU – la storica formazione nazionalista, ufficialmente non indipendentista, del centrodestra catalano. L’anno scorso, sperando di capitalizzare gli effetti della crisi e i livori contro Madrid ladrona, Mas ha giocato d’azzardo: schiacciando a manetta sul pedale separatista, ha convocato elezioni anticipate che subito hanno assunto il tenore di un pre-referendum sull’indipendenza. Però le ha perse. Puntava alla maggioranza assoluta, ma perfino quella relativa gli si è assottigliata. Fine del sogno soberanista? Nemmeno per sogno. Perché dal voto Mas sarà pure uscito ammaccato, però a vantaggio di chi è ancora più indipendentista di lui: i radicali di Esquerra Republicana. Raddoppiando i deputati, la sinistra catalanista è adesso un alleato vincolante, esigente. Nel Parlament non si muove più foglia che Esquerra non voglia.
Più o meno indipendentista, il nazionalismo catalano è creatura antica. Un pedegree pieno di nobili battaglie, ma anche furbi compromessi e ben architettate demagogie. Schiacciata dal franchismo, fieramente riemersa in democrazia, l’idea di Nació è stata – a seconda – baluardo identitario, arma di pressione, quando non di ricatto per ottenere laute concessioni da Madrid – chiunque ci fosse al governo.
Ma oggi – nell’Europa, e nella Spagna, boccheggianti tra disoccupazione di massa, disaffezioni elettorali e furori antipolitici che senso ha la rivendicazione di una Catalogna nuovo Stato? Che cosa esprime e dove porterà il ritorno di fiamma dell’indipendentismo? Sono andato a chiederlo a tre intellettuali, tutti decisamente critici, vuoi ostili, verso una galassia nazionalista, intesa anche come ideologia, cultura, ricettacolo di bollori diffusi.
Il filosofo Fernando Savater non è catalano. Però di nazionalismi se ne intende. Perché ha origini basche. Le prese di posizione contro il radicalismo gli sono costate minacce di morte firmate Eta, e dieci anni di vita sotto scorta. «In Catalogna la crisi sta certo esacerbando il conflitto e, forse, una ripresa economica potrebbe stemperare la situazione. Ma senza risolverla. Ormai la lacerazione con la Spagna è troppo profonda per poter essere ricucita» dice, con sorridente pessimismo, nella casa madrilena. «Attraverso scuola e media, l’indottrinamento catalanista ha prodotto una radicalizzazione dalla quale sarà difficile tornare indietro. Difficile dire se tutto questo porterà a una frattura secessionista. Più che l’indipendenza, ai politici catalani è sempre convenuto gestire l’indipendentismo. Costa meno e rende di più». Tradotto in esempio: «Con Madrid, i nazionalisti hanno lo stesso rapporto di quei figli che dicono a papà: Non ne posso più della tua oppressione. Me ne vado. Però tu pagami un appartamento e assicurami un vitalizio». Nel turbine della globalizzazione che sfarina il vecchio concetto di Nazione, il catalanismo è, secondo Savater, «tipica ideologia reattiva di chi si aggrappa a quanto ha di più prossimo e familiare. A quello che, con sarcasmo, Nietzsche chiamava il rassicurante calduccio della stalla». Ma che c’azzecca il neo-localismo con una metropoli internazionale e meticciata come Barcellona? «Sotto Franco, ci andavamo per sentirci in Europa. Ma il nazionalismo è riuscito a farne un posto marginale. Tempo fa, Mario Vargas Llosa – un fan di Barcellona – mi ha detto: Era una città povera e cosmopolita. Oggi è ricca e provinciale».
E sia. Però, con 7 milioni e mezzo di abitanti, un Pil pro capite di 27.248 euro – superiore a quello della Lombardia – la Catalogna rappresenta oltre il 20 per cento della ricchezza spagnola, un quarto dell’industria. È la più indebitata tra le Comunità, ma versa allo Stato più di quanto riceve. Perciò chiede autonomia fiscale. E vuole pesare di più. «Benissimo» dice Savater, «ma sa com’è, in democrazia, per pesare devi avere i voti». I nazionalisti non li hanno? «Alla manifestazione di settembre erano maggioritari. Ma nella società catalana?». Il referendum? «Organizzarlo sarebbe già riconoscere un’indipendenza de facto. Al limite, non bisognerebbe chiedere soltanto ai catalani se vogliono smettere di essere spagnoli, ma anche agli spagnoli se intendono rinunciare alla Catalogna».
Ma qual è il profilo sociale di chi invoca il divorzio dalla Spagna come soluzione di tutti i mali? «Giovani antisistema, disoccupati, commercianti, piccoli imprenditori... Nell’universo nazionalista c’è di tutto» spiega lo scrittore e critico Félix de Azúa, barcellonese rifugiatesi da qualche anno a Madrid. «È una specie di populismo poujadista. O, se vuole, peronista. Guardi come utilizza il calcio, gli exploit del Barcelona Fc: alla stessa maniera dei vecchi regimi sudamericani». Eppoi c’è la questione della lingua. Nelle scuole, il castigliano è ormai ridotto da tempo a pochissima cosa. Al punto che – racconta De Azúa – «durante la ricreazione ci sono vigilantes preposti a controllare che gli studenti non parlino in spagnolo. Questo in una regione dove il 60 per cento della gente si esprime anche in castigliano. Oppure prenda i concorsi pubblici: li è ormai richiesto un livello di conoscenza del catalano così alto che nemmeno i più anziani tra i leader nazionalisti passerebbero l’esame!». Alla radicalizzazione avrebbe contribuito anche «la mancanza di una vera sinistra. I socialisti catalani sono in buona parte pro-indipendenza. Il nazionalismo è ovunque di destra. Salvo che in Catalogna. Singolare, non trova?».
Per orientarsi nel rompicapo ci sono due nuovi e interessanti libri in italiano: Catalunya-España. Il difficile incastro di Elena Marisol Brandolini (Ediesse edizioni); e La questione catalana di Angelo Attanasio e Claudia Cucchiarato (in uscita on line su goware-apps.com). Comunque si guardi al rebus, una cosa è certa: lo Stato delle Autonomie – l’assetto che la Spagna si diede dopo la dittatura – non funziona più. «A questo aggiunga il generale malessere contro le derive partitocratiche, aggravato dagli affari di corruzione» (scandali che non hanno risparmiato nemmeno i nazionalisti al potere in Catalogna) ricorda il romanziere Javier Cercas. Lui è nato in Extremadura, ma vive a Barcellona. E si definisce catalán-extremeño o extremeño-catalán. Per dare la misura del proprio antinazionalismo cita Flaubert: «Tutte le bandiere sono talmente sporche di sangue e di merda che è tempo di non averne più». Ma i suoi argomenti sono di geometrica semplicità: «La democrazia è diritto a decidere. Ma non su quel che ci pare e piace. Non ho il diritto di decidere se pagare le tasse o rispettare i semafori. Devo farlo dentro i confini della legge. Ora, i nazionalisti non pretendono di dribblare la legge, ma la Legge delle leggi: la Costituzione. Di quale legittimità dispongono per farlo?». Ecco il busillis: in Catalogna l’indipendentismo è maggioranza o minoranza rumorosa? «Anche se è noioso, facciamo due conti» dice Cercas. «Alle ultime elezioni, i partiti dichiaratamente indipendentisti hanno raccolto un 17 per cento. In tutto 24 deputati su 135. Se – essendo generosi – sommiamo a questi la metà dei parlamentari di CiU, che non si è mai detta indipendentista, arriviamo a 49. Cioè un 36 per cento. Minoranza robusta, ma pur sempre minoranza. Quando saranno al 75 per cento ne riparleremo». L’indipendentismo sarebbe dunque un corpo di media statura che sul muro della pubblica opinione proietta un’ombra da gigante? «Di certo hanno creato un’apparenza di unanimità che però non esiste». Un’avventura: «E a me le avventure piacciono nei romanzi, non nella realtà politica».
Ma se domani si andasse al traumatico referendum sulla scissione che succederebbe? Una volta feci la domanda a un militante dell’indipendentismo basco. Lui mi rispose: «Se lo perdessimo, andremmo avanti comunque. Fino a diventare maggioranza».
Marco Cicala