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 2013  giugno 07 Venerdì calendario

DOV’ERA LUI, LÌ ERA LA CULTURA UNGHERESE

[Sándor Márai]

Fra i successi editoriali più duraturi di questi anni, in Italia e all’estero, figurano i libri di Sándor Márai (1900-1989). È un’ottima notizia in un panorama generalmente depresso e deprimente. Era forse dai tempi di Guido Morselli che un maestro della narrativa non irrompeva in scena con un’opera colpevolmente trascurata dai contemporanei e perfettamente impacchettata per i posteri. La differenza è semmai quantitativa, perché se l’italiano ci ha lasciato una decina di testi, l’enorme fucina dell’ungherese continua a sfornare romanzi, diari, memorie, poesie e saggi, secondo un programma gestito a Toronto da un gruppo di oculati eredi. Si corre il rischio di saturare il mercato? Finora si direbbe di no, data la straordinaria capacità di Márai di reinventarsi in ogni lavoro, pur restando fedele a un nucleo fondamentale di temi e a uno stile inconfondibile. Il suo scopo è descrivere ostinatamente, inesorabilmente, l’odissea dell’individuo respinto a correnti alterne dal Mito e dalla Storia, ignorando quelle che per lui non sono altro che le scorie della vita. Se volete quindi disintossicarvi dalle storie di adolescenti un po’ difficili che sgozzano la nonna, camionisti giapponesi transessuali in viaggio per Katmandu e modelle sull’orlo della crisi di nervi al primo segno di cellulite, è un autore che fa per voi. Nel ricordare che «i grandi scrittori non hanno fretta», Márai ci aiuta a capire perché, a forza di scimmiottare l’attualità, gran parte della letteratura contemporanea rischi di scadere prima del latte che compriamo al supermercato. Dopo due giorni, è già andata a male.

Una parentesi italiana. La sua vita, più affascinante di un romanzo, merita di essere brevemente ripercorsa. Márai proveniva da una schiatta di notabili e magistrati di origine sassone, i Grosschmid de Mára, stabilitisi nel primo Ottocento a Kassa, in tedesco Kaschau, in slovacco Košice, cittadina di tradizioni mitteleuropee, annessa dopo la Grande guerra alla neo-costituita Cecoslovacchia. Era una marca di tolleranza all’interno della “grande” Ungheria e ciò spiega l’orgoglio con cui lo scrittore continuerà a rivendicare le sue origini borghesi. Ma la famiglia aveva anche una vena artistica e uno dei suoi fratelli minori diventerà un prolifico regista hollywoodiano con lo pseudonimo di Geza von Radványi. Márai si fece conoscere tra le due guerre con i primi romanzi: I ribelli, Truciolo, Divorzio a Buda (tradotto nel 1938 in italiano da Baldini e Castoldi), L’eredità di Eszter ecc. Opere minori che rivelano tuttavia la mano dell’autore di razza. Spirito inquieto, cominciò a peregrinare attraverso l’Europa degli Anni Venti e Trenta: Germania, Parigi e Londra, l’itinerario descritto in uno dei suoi libri più belli, Confessioni di un borghese. In compenso, poca Vienna e poco “mito asburgico”: Márai non era un nostalgico cantore del “mondo di ieri”, ma semmai dell’altroieri, quello della rivoluzione democratica del 1848, stroncata dall’Austria degli Asburgo e dalla Russia zarista. L’Italia gli piacque subito, anche se naturalmente ignorava che vi avrebbe poi compiuto due lunghi soggiorni da profugo, prima a Napoli (1948-52), poi a Salerno (1968-80). È un punto che va sottolineato. Márai è presentato oggi al pubblico internazionale come uno scrittore ungherese emigrato negli Stati Uniti, mentre l’Italia ebbe un’importanza centrale per lui, e se fosse rimasto nel nostro Paese avrebbe forse evitato una fine atroce.
Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, era ormai un autore influente, inviso al governo autoritario dell’ammiraglio Horthy. Aveva una moglie ebrea, Lola, e nel terribile inverno 1944-45 furono entrambi braccati dalle “Frecce Crociate” di Szálasy, ausiliarie locali delle SS. La vicenda sarà trasposta in Liberazione e Terra, terra!..., libri che sono anche una reazione alle calunnie messe in giro per accusarlo di simpatie antisemite e filonaziste. Con l’arrivo dell’Armata Rossa continuarono le violenze, ma di segno opposto. Intellettuale progressista, non compromesso col passato regime, Márai aveva tutti i numeri perché il nuovo potere comunista gli facesse ponti d’oro. Ridiventò attivo per un paio d’anni nel Pen Club e sulla stampa, ma la rottura divenne inevitabile con l’incalzare della Guerra Fredda: «Non voglio un palco all’opera, mentre un mio collega è strangolato in una cella», scrisse l’11 aprile 1948, all’atto di lasciare il Paese che non avrebbe mai più rivisto. Erano i tempi in cui chi “sceglieva la libertà” era bollato come rinnegato e nemico del popolo. Svizzera, Francia e Germania gli chiusero le porte una dopo l’altra. Restava l’Italia. Uno zio di Lola trapiantato a Napoli mise a loro disposizione un appartamentino a Posillipo. Il vicino campo profughi di Bagnoli era divenuto il più grande centro di smistamento dell’Europa meridionale per i rifugiati che cercavano di andare a rifarsi una vita nel nuovo mondo: Stati Uniti, Canada, Australia. È l’ambiente descritto in un altro dei suoi capolavori, Il sangue di San Gennaro. Márai viveva nascosto con la moglie e il figlio adottivo János, nel timore di essere eliminato o rapito dai servizi segreti ungheresi o sovietici. Non è nemmeno sicuro che abbia effettivamente risieduto nella casa di Posillipo ove è stata apposta una targa per commemorarlo, alcuni anni fa. Eppure, ricorderà quegli anni con uno slancio raro in lui: «Ho voluto bene a tutto e a tutti, e anche i napoletani, a modo loro, mi hanno accettato». Riuscì a pubblicare in Italia ancora un paio di romanzi, La suora (Bompiani) e La scuola dei poveri (Macchia), ma senza alcun successo. Ed era troppo orgoglioso e diffidente per cercare di uscire dalla sua torre d’avorio.
L’America concesse loro finalmente il sospirato visto. In cambio, Márai cominciò a collaborare a Radio Free Europe e avrebbe continuato a farlo per sedici anni con lo pseudonimo trasparente di Ulisse, garantendosi l’unica modesta fonte di sussistenza. Il clima pesante del maccartismo e i litigi con gli altri esuli finirono con isolarlo nuovamente. Ma la decisione fatale fu il rifiuto di rinunciare a scrivere nella sua lingua. Altri scrittori ungheresi avevano optato per l’inglese, come Artur Koestler e Hans Habe (János Békessy), o per il francese, come François (Ferenc) Fejtö. Lui scelse invece di proclamarsi custode di una lingua oscurata due volte dall’eclisse totalitaria. Vi riecheggiava la sprezzante risposta di uno dei suoi maestri, Thomas Mann, agli scrittori del Terzo Reich: «Wo ich bin, ist die deutsche Kultur», la cultura tedesca è dove sono io. Mann, tuttavia, scriveva in tedesco, altra lingua internazionale. La scelta di Márai era dunque nobile e romantica, ma minoritaria fino al masochismo. Oltretutto, è grazie alle traduzioni in italiano, tedesco, francese ecc. che egli ha ottenuto in questi anni la notorietà che gli fu negata in vita.
La molla fu soprattutto d’ordine psicologico: Márai riteneva di dover vivere fino in fondo la condizione dell’esule per poterla esprimere con l’autenticità di un vero artista. Lola lo assecondava ciecamente e per i vent’anni successivi fu lei a mantenere la famigliola, lavorando nel reparto calzature di un grande magazzino, mentre il marito passava le giornate nei musei o nella biblioteca circolante della 42a strada, ritenendo qualsiasi lavoro “alimentare” al di sotto della sua vocazione. La sera, dopo un pasto spartano, le leggeva per ore pagine e pagine che finivano inesorabilmente nei cassetti della scrivania, o al massimo nel circuito di qualche piccola casa editrice ungherese in esilio che ne stampava poche centinaia di copie (oggi, ironia della sorte, sono tra i pezzi più ricercati del modernariato bibliofilo). Neppure la rivoluzione del 1956, che riportò il suo Paese all’attenzione del mondo, riuscì a ridargli un ruolo. Amareggiato, si risolse a chiedere la cittadinanza statunitense e ribadì il divieto di pubblicare o ripubblicare le sue opere in patria, fino alla partenza delle truppe sovietiche e all’avvento della democrazia.

Un tragico ritorno. A metà degli Anni Sessanta, Lola andò in pensione, il figlio adottivo era indipendente, e i Márai decisero di trasferirsi in Italia per trascorrervi una vecchiaia più tranquilla e meno costosa che a New York. Erano rimasti affezionati al Sud e scelsero Salerno, «questa città così signorile, in cui fummo felici tra la sua gente ospitale». Vi passarono gli unici anni sereni del lungo esilio, ignorati come sempre dagli ambienti culturali, ma confortati dalla cordialità della gente comune. La nostalgia del figlio lontano spinse i due anziani coniugi a varcare nuovamente l’oceano nel maggio 1980, diretti questa volta in California. Fu una scelta catastrofica. Prima di partire, Márai donò agli amici salernitani la vecchia macchina da scrivere Continental che si era portato sempre dietro, perché aveva la tastiera con gli accenti ungheresi. Era il segno della volontà di non scrivere più: anticipazione del suicidio, o suicidio simbolico.
János si era stabilito a San Diego con la sua famigliola middle class, perdendo rapidamente qualsiasi radice ungherese, cosa che ferì profondamente il padre. Lola si ammalò gravemente e, in mancanza di un’assicurazione privata, Márai spese fino all’ultimo centesimo per assisterla. Scomparve improvvisamente anche János, stroncato da un embolo. Rimasto solo, lo scrittore trascorse gli ultimi anni chiuso nella piccola libreria comunale, circondato da hippies, barboni ed emarginati, in un’atmosfera di desolazione urbana che ricorda Atlantic City, il film di Louis Malle, o le cronache dell’uragano Katrina. C’era da rimpiangere perfino la malasanità italiana, che almeno gli avrebbe riservato un letto d’ospedale piuttosto che la panchina di un parco o una branda dell’esercito della salvezza. Decise di farla finita, ma per fortuna non smise di scrivere fino all’ultimo giorno. Nella pagina più straordinaria del Diario, lo vediamo intento a seguire, con la serietà che metteva in tutte le cose, un corso di tiro a segno della polizia locale per essere sicuro di non sbagliare il colpo fatidico. Ultima beffa della sorte: il muro di Berlino cadde pochi mesi dopo il suo suicidio, il 22 febbraio 1989.

Inattuale, quindi da leggere. Sindbad torna a casa è l’ultimo titolo di Márai, appena apparso da Adelphi a cura di Marinella D’Alessandro. Salutiamo subito, oltre all’ottima traduzione, la saggia decisione dell’editore di corredare finalmente il testo di un agile apparato storico-filologico, per cui il lettore non dovrà impazzire per scoprire l’importanza storica della battaglia di Kápol-na, o quanto sia buono il falsleves con il maiale al posto del manzo. Il libro è del 1940 e appartiene alla stagione della guerra, che ispirò a Márai opere rilevanti come La recita di Bolzano e Le braci. Nel mettere in scena un vecchio narratore decaduto e dimenticato, Márai ha voluto rendere un ultimo, affettuoso omaggio a un suo collega di allora, ma ha soprattutto adombrato in modo impressionante il proprio futuro, la propria vocazione alla marginalità. Questo Sindbad “in viaggio” fra strade e redazioni di giornali, locande e osterie, con movenze chapliniane di dignità offesa, «autore di un centinaio di libri, quando la vita gliene aveva lasciato il tempo», è un eterno San Giorgio in lotta contro il drago. Incespica a ogni passo nella Storia matrigna, senza smettere di denunciare «l’ambiente indegno, l’ignoranza, il cattivo gusto, la pseudoletteratura, la sorda disumanità» che lo circondano. Ogni tanto gli sfoghi del protagonista-autore scivolano nel nazional-popolare e sembra quasi che l’Ungheria, come l’Urss di Stalin, abbia inventato tutto ciò che serve al bene dell’umanità, dall’aspirina al telescopio. Ma è un’ossessione che si spiega con l’idea che, coinvolto in una guerra criminale a fianco dell’Asse, il Paese stesse mettendo in gioco la sopravvivenza nazionale, come infatti per poco non accadde. Nel rivendicare orgogliosamente la dimensione etica e poetica della scrittura, Márai non potrebbe essere oggi più inattuale. Il che naturalmente è un’ottima ragione per leggerlo.
Maurizio Serra